Prima di perderti – Tommaso Giagni

di VINCENZA LONGO – La Letteratura narra la vita, l’eternità dei sentimenti e talvolta dei silenzi che ci ostiniamo imperterriti a tessere o ad evitare, proprio laddove sarebbe più opportuno un legame profondo, vissuto appieno ed eternamente. Capita poi sporadicamente, in modo qualche volta bizzarro, onirica o reale poco importa, di avere una seconda possibilità. Prima di perderti è il titolo del nuovo romanzo di Tommaso Giagni (Einaudi, pp. 142, € 16,50), che racconta il rapporto tra un padre e un figlio e nello stesso tempo di una presa di coscienza forte, combattuta, postuma ed estraniante.

Fausto, scrittore di successo, perde improvvisamente il padre Giuseppe. La causa della morte è il suicidio, calcolato e forse più volte meditato. Fausto non mostra meraviglia: finalmente, dopo una vita vissuta nell’illusione del passato, di quelle lotte appassionate degli anni ’70, suo padre era riuscito tragicamente a reagire. Giuseppe agli occhi del figlio è un uomo frustrato, una figura che ricorda per molti aspetti Alfonso Nitti, l’impiegato incapace di adattarsi alle situazioni presenti e trarne vantaggio, un ghostwriter che nasconde se stesso in quel meccanismo sociale che rende anonime le persone. Non a caso, come nel romanzo sveviano, la vita fallimentare dell’inetto si conclude con il suicidio, quasi atteso. Il duello, al quale Nitti rinuncia per timore o vigliaccheria, è lo stesso che Fausto rimprovera al padre. Tommaso Giagni

Il figlio, convinto di conoscere il mondo e di sapersi districare nella malvagità, biasima Giuseppe, ai suoi occhi buono oltremisura fin dall’età giovanile; egli è un padre frustrato, sofferente, inetto, ma ancora vero. Fausto, all’opposto, perde la prerogativa del dubbio e dei sentimenti. Il suicidio, così come la rassegnazione nel Gattopardo, è duratura e non improvvisa coscienza, non «aveva scoperto che il mondo è cattivo», forse lo aveva sempre saputo. Tommaso Giagni

La vita frenetica, infatti, mostra una realtà distorta, una cieca consapevolezza della cattiveria, ma non ne rivela la complessità o la difficoltà di un vero adattamento, che non sia il soffocare. Il non riuscire a trovare una risposta nel presente, in cui le militanze non hanno più senso e il mondo si è aperto ad un’accidia e ad una rassegnazione incontrollata, blocca Giuseppe, lo immobilizza nel suo fallimento, tanto da non riuscire più a reagire e «quando ti accorgi che è finita, e sai che non ti capiterà più di vivere qualcosa con quell’intensità, è dura accontentarsi». A quel punto affronti la delusione nascondendoti nell’anonimato, in pensieri e bugie che rimangono tali per non reagire.

La vera fuga, in verità, è quella di Fausto, che apparentemente sembra quindi accettare e affrontare, ma si ostina a sopravvivere nell’evasione del silenzio, del confronto e dell’amore. Il modo di crescere protettivo, affettuoso e aperto dei genitori, comunisti atei, non ha fatto che alimentare nel tempo la sua idiosincrasia verso quel loro stile di vita così poco razionale. Le loro convinzioni politiche, quella divisione tra buoni, comunisti atei, e cattivi «fascisti democristiani mafiosi piccolo borghesi» e di conseguenza le loro amicizie ristrette, cominciano ad apparire ridicole.

Era inevitabile l’approdo in quel mondo che, seppur malvagio, appariva necessario. D’altronde dai genitori ognuno eredita ciò che meglio crede e «dalla postura ripiegata di Giuseppe, lui ha imparato a dimostrare di non avere esitazioni»: in questa realtà conta l’apparenza ed è indispensabile mostrarsi sicuri. Egli vive rispettando regole che non gli appartengono, «a casa di Fausto il caffè non si usava, così lui ha iniziato tardi a berlo; per un lungo periodo l’ha preso solo quando vedeva gli altri prenderlo, un dovere invece di una possibilità».

In gioventù gli insegnamenti dei suoi genitori consideravano il dovere etico di apprezzare l’intelligenza e non la bellezza rifiutando ciò che esteticamente lo attraeva, che malgrado tutto «era machista, mediamente». Pertanto, agire nel modo richiesto dagli altri, lo avrebbe portato al raggiungimento di un apparente successo salvaguardandolo cosi, dalla possibile delusione del fallimento. L’amore è illusione, rende fragili e per questo, alla vista di Catia, non vuole cedere: è solo bisogno materiale di un sostegno «lo spaesamento, adesso, il bisogno di affidarsi a qualcuno: sapere che lei si è sempre offerta di caricarsi dei suoi pesi. È a questo incantesimo che deve resistere». Eppure ella appare così bella e così diversa. Pretende di potersi comportare come se nulla fosse accaduto e il muro di indifferenza lo disorienta, il suo egocentrismo gli impedisce di credere che si possa essere felici anche senza di lui.

Il tema, sotteso ma immediatamente percettibile, è quello del cambiamento generazionale, un mutamento inevitabile di prospettiva che ricorre in grandi classici come Il gattopardo o Padri e figli di Turgenev. Fausto, figlio, teme di restare impigliato al passato perché «i ricordi [distraggono] dalla vita», impediscono di adattarsi ai cambiamenti. Il Gattopardo, invece, discerne la trasformazione che deve obbligatoriamente avvenire, ma si rifiuta di parteciparvi. Fausto, repellendo il passato e sfuggendo il silenzio, certo di avere il controllo di tutto, di se stesso e dei suoi stessi sentimenti, si meraviglia del dubbio, degli attimi di timore e smarrimento, e anch’egli in quei palpiti lascia trapelare la debolezza umana: «ai semafori non riusciva a stare dietro la linea. Se ne stupisce, perché lui i soprassalti li tiene a bada». Insistentemente ribadisce auto-convincendosi la differenza tra se stesso e il padre, uomo debole, fragile, incapace di reagire, succube di se stesso. È Fausto, però, a temere la quiete che a momenti può divenire altisonante, pericolosa e struggente e che spesso costringe a fare i conti con se stessi «benché per carattere sia tutto proiettato in avanti, il primo istinto è farsi una tana coi ricordi». Tommaso Giagni

Razionalità, ateismo e quella lucidità scientifica che crede di aver sempre posseduto, gli impediscono di comprendere la presenza del padre, gli attimi di perdizione e di paura dovuti a quei pensieri ossessionanti di ciò che non è avvenuto e sarebbe dovuto avvenire, quel silenzio che temeva, ma che ha assecondato fino ad allontanare Giuseppe a tal punto da restarne indifferente. Emerge un nichilismo che ricorda quello di Bazarov in Padri e figli nel suo atteggiamento materiale di scettico rifiuto dei sentimenti, ai quali Bazarov infine cede; una resa che sembrerebbe confermare la teoria di Fausto che vede l’amore come illusione: l’affetto rende deboli, come Catia. Quello del figlio è, però, un nichilismo superficiale e non riflettuto, quasi indotto, che porta all’inettitudine, a un materialismo in fondo maturato dal timore, a un cinismo che non si pone domande ma agisce passivamente. Sperare da un tale nichilista amore è vano. Catia, personaggio funzionale, enfatizza l’atteggiamento di Fausto, che è artefice e allo stesso tempo vittima della propria vita; ella lo comprende, cade nella trappola dell’amore e irrimediabilmente cambia come Bazarov.

Il nichilismo di Fausto è in fondo timore di una vita vissuta in maniera passionale, sincera, quel fare flemmatico e scettico che impedisce di cogliere l’essenza dell’esistenza umana. È l’inettitudine contemporanea celata dall’apparenza, nascosta da un adempimento assiduo e doveroso dei propri compiti; se il padre è un “impiegato” che ancora mantiene gelosamente il passato e ciò che porta con sé, Fausto è un «mediamente» paurosamente vero. I ricordi, che Fausto vive come una trappola, permettono a Giuseppe, come il principe Fabrizio, di comprendere la vita, discernere i “buoni” dai “cattivi”. L’atto del suicidio non è vigliaccheria, ma l’ultima eterna possibilità di reazione. I punti di vista si invertono, intrecciandosi in accuse di codardia e coraggio, di cosa sia la vittoria e la sconfitta e se si può realmente dire di aver perso o aver vinto nella e di fronte alla vita: un trionfo che sa di sconfitta e un insuccesso che ha il sapore della conquista.

Forse se questi pensieri irrazionali e martellanti fossero stati colmati prima gli avrebbero impedito di essere quel che è stato fino a quel momento; questi gli fanno conoscere lo straniamento e la paura di perderlo, per l’ennesima volta. L’inconscio e il timore, infatti, sono più forti dell’ingenua lucidità e lo vede, davanti a sé, reale quanto illusorio. Il corpo di Giuseppe presenta ancora i segni di ciò che è stato: gli anni della politica, le emozioni che per quanto tentasse di nascondere, si palesavano nei suoi sguardi. Il figlio detesta, invece, manifestare le sue tensioni e mostrarsi insicuro, «sentirsi confuso. Nei servizi che gli capita di fare, sorride anche quando il fotografo gli chiede di fare il serio, perché la sua espressione naturale tradisce uno stupore che odia». La sua insicurezza, in verità, non è minore di quella del padre: è la tendenza odierna di vivere nelle false certezze, nascondere a se stessi la verità e adeguarsi ai margini per non soffrire; non mostrare le proprie debolezze per non venir meno ad un canone di arditezza e sicurezza il cui adulterio si paga con il disorientamento. Ha «paura di illudersi e finire deluso».

È una storia di margine, quel confine celato che Fausto racconta nei suoi libri, le stesse periferie confusionarie che Giuseppe conosceva, viveva interiormente, ma che non osava più oltrepassare. Fausto, invece, sembra indugiare sulle estremità che narra nei suoi testi poiché descrive freddamente personaggi diversi, solo in apparenza così dissimili da lui, senza viverli pienamente. Coglie linguaggi e vite pur mantenendo un’apatica distanza. «Decrittare i codici delle persone che incontra gli riesce anche quando sembra impossibile […]. Allo stesso tempo Fausto ha mal sviluppato un pensiero davvero suo; e comunque le proprie idee non le espone mai […]. È così che ha trovato le chiavi per scrivere di un omicida, un marchettaro, un poliziotto, e in generale per rapportarsi a mondi lontanissimi da lui. È così che ha trovato e poi perso Catia; ed è così che ha taciuto ogni cosa con Giuseppe». Tommaso Giagni

È un racconto di silenzi, una quiete che intimorisce chi ci vive senza coscienza. La vita obbliga ad un cambiamento orientato il più delle volte alla chiusura e all’indifferenza, a un punto di vista dissacratorio, ma ritornare indietro è doveroso: in quel momento «non ha altra scelta. Non vuole tradire le sue certezze, ma deve sospenderle». Il duello più cruento e sanguinario è con il proprio passato, poiché costringe ad un confronto diretto con i fantasmi dei ricordi, delle cose non dette di cui ci si deve in qualche modo liberare per poter andare avanti. È uno scontro con se stessi e con le proprie origini per mutare, così come per Catia, ma un nesso rimane ed è con quello che bisogna fare conti. La puzza della discarica è il fetore di un qualcosa di vecchio, putrefatto e consumato, di verità e bugie ristagnanti rimaste per troppo tempo in quella periferia dove il rapporto tra Fausto e il padre, e la vita di quest’ultimo o di entrambi, sono rimasti incagliati.

È, ancora, un libro che racconta un passaggio, tema affrontato non a caso, anche nel nuovo romanzo di Pietro Grossi (Il Passaggio, Feltrinelli), dove si narra di un rapporto turbolento e ritrovato tra padre e figlio. Fausto crea un rituale nel disperdere le ceneri, una liturgia non convenzionale, ma personalmente organizzata, che appare necessaria come rito di passaggio, di presa di coscienza e superamento del lutto per il figlio, è come un guado che per la prima volta permette a Giuseppe di oltrepassare i confini del mondo e dei suoi stessi limiti inibitori e sofferti. Tommaso Giagni

Vi è un fluttuare continuo tra passato e presente e un andirivieni incessante di differenti spazi temporali necessari per raccontare una storia di rapporti – non rapporti. I punti di vista si incrociano ed entrano in contrasto in vicende e affetti filtrati con lenti diverse, attraverso la tenerezza che permane nell’atteggiamento consueto dei genitori nel trattare i loro figli come eterni fanciulli e la noia di questi ultimi di essere considerati ancora tali. Non si può far altro che riscattare e adempiere ciò che da piccoli si sarebbe voluto fare, come recuperare, dopo anni, quel pallone lanciato per errore ai piedi di Giuseppe, per salvaguardarlo dagli insulti dei ragazzini di fronte ai quali si era tanto vergognato di quel padre così assorto, incapace di calciare un pallone.

Ritorna la mano sollevata, prima di Giuseppe nel saluto che al figlio era sembrato troppo insistente, e poi quella di Fausto nel momento dell’apparizione. Una mano che si frappone tra loro, prima e dopo, ma che nel secondo caso permette di sentirne il respiro, la pelle, di accertare la veridicità di quell’apparizione. Un abbraccio che ricorda quello di Enea: «la forma di suo padre ha consistenza» a differenza di quella di Anchise, è un corpo reale. Non è ancora morto definitivamente o perlomeno non lo è dentro di lui. Quell’abbraccio mai dato, quasi un ritorno all’infanzia, al bisogno delle tenerezze paterne, che Fausto ancora vive come una prova scientifica; capire oggettivamente come tutto ciò sia possibile, mentre Giuseppe, da padre, lo avverte come dimostrazione di affetto nelle sembianze di un amore non contraccambiato o magari semplicemente vissuto in maniera differente. Ritorna il braccio che tende a recuperare un rapporto, quello con Catia, o solamente nostalgia del vissuto. Tommaso Giagni

Lo scrittore si sofferma sulla descrizione del presente, mentre procede incalzante nel ricordo del passato. Un’esposizione che alle volte fissa lo sguardo su gesti minuziosi, narrati al rallentatore, secondari rispetto alla scena principale, come gli effetti dei primi raggi del sole, lo sguardo proteso al futuro nell’immaginare le costruzioni concluse mentre ad attendere Fausto vi è lo scontro con il padre, e non solo. Particolari che permettono flashback improvvisi illuminanti per comprendere il trascorso e validi, in alcuni casi, a consentire un’analisi sul come, distratti dal mondo caotico, i dettagli sfuggano.

Un libro che dice molto, che offre e induce ad un’acuta riflessione, ma la cui verità, semplice e netta, già in parvenza ferisce a causa della negligenza che spesso ci impedisce la meditazione:

«“tu ce l’hai una persona che ti vuole bene?” Fausto fa un breve, istintivo movimento verso Catia, che scava coi denti l’interno di una guancia. […] “Affetti in generale: parenti, amici, maestri…” “Gli amici, sai che non mi interessano tanto. Anche la famiglia l’ho trascurata, però te e mamma…” “Un genitore non vale […]”».

Vincenza Longo Tommaso Giagni Tommaso Giagni Tommaso Giagni

(www.excursus.org, anno IX, n. 84, luglio 2017) Tommaso Giagni Tommaso Giagni