Lettere a Bruna – Giuseppe Ungaretti (a cura di Silvio Ramat)

di ROSSELLA FARNESE – «Ungà, è il nome che mi hanno dato gli amici di Francia, è il nome che mi dà chi mi vuole bene», scrive così Ungaretti sul margine sinistro dell’ultimo foglio di una lettera datata 11/X/1966 indirizzata da Roma a Bruna Bianco. 

Se “Ungà” è dunque il soprannome affettuoso di Giuseppe Ungaretti, Bruna Bianco è la sua «piccolina», la sua «dolcezza», la sua «anima», il suo «sogno», la sua «luce lontana»: queste alcune formule usate dal poeta per rivolgersi al suo amore senile in una corrispondenza «che almeno da parte di Ungaretti è febbrile». Si tratta infatti di un corpus di quasi quattrocento lettere scritte dal poeta all’amata – che finora conserva per sé le proprie risposte – in un arco temporale di circa due anni e mezzo dove si alternano quattro tempi muti e periodi nei quali Bruna e Ungà non hanno bisogno di scriversi perché si incontrano. Un epistolario edito da Mondadori nel settembre 2017 (pp. 657, € 21,00) a cura di Silvio Ramat, con cui abbiamo avuto il piacere di dialogare a riguardo. 

Fine agosto 1966, San Paolo. È l’inizio dell’«ardente segreto», di una vicenda amorosa drammatica  e leggera,di lontananza e di slancio, di paure e di speranza, di lettere recapitate a ritmi irregolari, di malintesi e pensieri, di gesti premurosi e musica, di regali costanti: profumi, foulards, grandscarrés, cravatte, braccialetti, libri e rose rosse, red roses for a blue lady – come dirà Bruna ricevuto l’omaggio floreale di sette rose rosse per il Capodanno 1967 citando il titolo di una popolarissima canzone americana sconosciuta al suo innamorato.

Bruna Bianco è una graziosa ragazza di ventisei anni, laureata in giurisprudenza, originaria delle Langhe, trasferitasi in Brasile dove il padre ha aperto una filiale della sua azienda produttrice di spumanti con sede principale a Canelli, nell’astigiano. Ungaretti è in trasferta a San Paolo desideroso di rivedere la tomba del figlio Antonietto, morto a soli nove anni di appendicite. Bruna lavora nell’amministrazione della ditta paterna e scrive poesie così dopo una conferenza porge al poeta una scelta dei suoi versi, in stile un po’ tradizionali, troppo semplici e ingenui per la sensibilità moderna: questa la prima impressione di Ungaretti, rimasto affascinato dalla grazia e dalla flessuosità della ragazza. Giuseppe Ungaretti

«Trascrivo ancora la mia poesia da Joyce, per indicarti quanto lavoro costa mettere a posto un ritmo, tenendo conto della sintassi, della posizione dei vocaboli, dei valori fonici delle sillabe. Erano 6 (sei) anni che non facevo più poesia. / Devo a te anche il miracolo di aver ritrovato le vie del canto. Ho ancora la parola arrugginita». Fil rouge dell’epistolario è proprio la poesia, come emerge da questa lettera datata 6 ottobre 1966.Ungàdiventa per Bruna maestro di lingua e di stile, Bruna è «la cara Musa», non solo materia e occasione di poesia ma anche fonte della ritrovata ispirazione, ed è la poesia stessa come ripete Ungaretti: «mia Poesia, mia Luce, Anima mia», «sei l’anima della mia anima, l’ultima forza che mi resta, l’ultima mia poesia, la vera, l’unica vera». Giuseppe Ungaretti

Amore e poesia scorrono tra le pagine dell’epistolario affollato anche di scorci paesaggistici, cronache di viaggio e aneddoti. Il poeta del sentimento del tempo dipinge così, ad esempio, il cielo romano del 26/12/1966: «Oggi il cielo è molto azzurro, vasto, non come la vigilia di Natale, ma molto natalizio e vasto, con ogni tanto una nuvoletta, un’indicazione di nuvola, una pecorella nel cielo. Un cielo più napoletano che romano, un cielo Salvator Rosa. Un cielo da presepio napoletano».

In occasione del convegno di poesia organizzato da Ted Hughes nel luglio 1967 Ungaretti visita Londra per la prima volta, le lettere di quel periodo sonopagine frizzanti e sublimi critiche d’arte. L’11 luglio racconta, ad esempio, l’incontro con Allen Ginsberg: «Si era precipitato all’aereo a tenermi compagnia, o a chiedere rifugio e protezione lo scalcinato scandaloso Allen Ginsberg. […] E Ginsberg nonostante sia l’uomo meno conformista del mondo, insopportabilmente non conformista, salvo nel lavarsi – all’opposto dei suoi seguaci beat, o di molti di essi, si lava – anche se va vestito in un modo impossibile, tra l’indù intoccabile e l’operaio muratore quando sul palco mura, coperto di schizzi di calce, sbrindellato. Naturalmente Ginsberg, perché lo proteggessi […] s’era stretto a me sul sedile del volante, […] e teneva sulle ginocchia una cassettina di mogano con borchie di bronzo che provocava la mia curiosità. È un esibizionista, e ha sempre con sé qualcosa per sorprendere chi gli sta allato e pour épater, all’ingiro, lesbourgeois. D’improvviso apre la cassettina, era un panino […] e si mette a cantare harihari». E nella lettera scritta il giorno seguente: «Stamani sono stato alla Tate Gallery, per vedere i disegni e i dipinti di Blake. […] Con Turner, l’ultimo Turner, il Turner senza più altro che colore, il Turner che più di un secolo fa aveva avuto il coraggio per primo di non essere più un pittore accademico, ma libero, solo pittore, solo poeta esprimendosi in pittura, con Turner e Blake scoprivo le origini della pittura informale. Il primissimo precursore era stato Vermeer».

Lettere a Bruna, aggraziato e leggiadro epistolario come il variopinto colibrì scelto per il primo piano della copertina, ardente e traboccante come l’amore di Ungà e Bruna, come le parole della lettera 35, scritta da Parigi il 20/XI/1966, che scorrono autografe sullo sfondo: «l’anima mia, traboccante d’amore per te, piena, sempre più colma della ricchezza di vita, di luce, di sogno, di verità che le offri, amore  mio […] Quest’amore incredibile che è verità e inganno, che è consolazione come niun’altra sulla terra potrebbe essere ed è disperazione, che è per me sete di forza e vergogna […] Ti amo, non puoi sapere quanto ti amo, molto più di me stesso, molto più di tutto». Se l’illustrazione del colibrì è stata una felice scelta della grafica, la lettera 35 è stata una proposta del curatore Silvio Ramat.

Professore Ramat, com’è nata l’idea di questo libro?

Nel giugno del 2014 Antonio Riccardi, responsabile del settore Oscar Mondadori, mi propose di essere il curatore di quest’edizione e mi invitò a Segrate dove sapeva che quel giorno sarebbe venuta anche Bruna Bianco. In quell’occasione partii da Segrate con un consistente pacchetto di pagine, che poi lessi su un file trascritto dagli autografi dalla stessa Bruna Bianco, con l’aiuto di una giovane italianista di San Paolo italo-brasiliana, Francesca Cricelli. Senza questa trascrizione sarebbe stato un lavoro più pesante; c’erano naturalmente parecchie sviste e interpretazioni inesatte. Ricevetti poi dalla Mondadori tutte le lettere passate allo scanner per poter lavorare sugli autografi e diverse volte mi sono recato a Milano per controllare fisicamente quegli autografi poco chiari sulla scannerizzazione. È stato un lavoro intenso durato circa tre anni; il libro ha quasi 600 note piene di riferimenti non solo a personaggi gravitanti attorno ad Ungaretti ma anche legati alla vita di Bruna.

Nell’Introduzione lei conclude così: «L’ossessione individuale che si proietta su uno smisurato orizzonte. Che altro potrebb’esserci di più intrinsecamente “poetico”? Le lettere a Bruna sono colme di questo convertirsi dell’elemento personale in argomento universale». Potrebbe quindi spiegare il legame tra universale e personale, tipico di Ungaretti, nelle lettere?

Ungaretti riferisce la propria poesia in un ambito molto più vasto di cui lui è solo testimone, un elemento tra tanti. Nelle lettere ragguaglia Bruna su cose che a lei interessavano poco e secondarie rispetto al loro amore, come il maggio francese del 1968, l’uccisione di Robert Kennedy nel giugno. Ungaretti avverte il bisogno di riversare su qualcuno, su Bruna, il suo disagio, la sua percezione dell’instabilità. E ci sono anche considerazioni sulla politica italiana e sulla sua amicizia con Mussolini, non così cieca da non capire che la sua alleanza con il nazismo avviava l’Italia al disastro.

«Il grande segreto della poesia è nella semplicità della parola.Se la parola riesce a farsi semplice, come è un sentimento quando riesce a filtrarsi e a farsi trasparente per purezza, tanto da divenire uno specchio per l’ansia d’ogni anima – in quel momento una parola può credersi vicina alla poesia».

Rossella Farnese  Giuseppe Ungaretti

giuseppe ungaretti

(www.excursus.org, anno IX, novembre-dicembre 2017)  Giuseppe Ungaretti