Epidemie e guerre – Breccia e Frediani

di GIUSEPPE LICANDRO ‒ La pandemia Covid-19, che ha colpito il pianeta nel dicembre scorso, non accenna ancora a finire: verso la fine di giugno del 2020,risultano quasi 9 milioni i contagiati e circa 460 mila i morti. Il morbo ‒ originatosi nel mercato cinese di Wuhan e causato dal coronavirus Sars-Cov-2 ‒ si manifesta inizialmente con i sintomi tipici dell’influenza come febbre e tosse, successivamente può evolvere in sintomi più gravi come dispnea e ipossia, dovuti all’insorgere di una grave polmonite interstiziale. epidemie

È pressoché certo che il coronavirus Sars-Cov-2, presente nei pipistrelli, sia stato trasmesso alla specie umana per mezzo di un altro animale non ben identificato, il quale ‒ secondo l’Istituto Superiore di Sanità ‒ «ha agito come una specie di trampolino di lancio per trasmettere il virus all’uomo» (cfr. Covid-19, molto probabile un ruolo per i pipistrelli, ma si ricerca ancora l’ospite intermedio, in https://www.iss.it/).

Le conseguenze economico-sociali della pandemia sono state estremamente serie, perché le misure sanitarie adottate per contenerla (distanziamento sociale, quarantena, lockdown, ecc.) hanno provocato il crollo del Pil di tante nazioni, mettendo in discussione la globalizzazione neoliberista e rilanciando ‒ almeno temporaneamente ‒ il ruolo dello stato, col ricorso a massicci investimenti pubblici per sostenere i consumi e l’occupazione.

La storia dell’umanità, del resto, è stata sempre caratterizzata dalla comparsa periodica di grandi epidemie che, insieme alle guerre, hanno indotto mutamenti sociali di portata epocale. In tal senso, ci pare istruttiva la lettura del saggio degli storici Gastone Breccia e Andrea Frediani Epidemie e guerre che hanno cambiato il corso della storia. Dalla peste di Atene alla grande influenza spagnola: come la diffusione delle pestilenze ha determinato l’esito dei conflitti e i destini delle civiltà (Newton Compton, pp. 288, € 9,40).

Gli autori hanno preso in esame sei momenti cruciali della storia dell’umanità, contrassegnati da guerre ed epidemie che hanno determinato ‒ come si legge nell’Introduzione‒ «l’evoluzione in termini sociali, economici, militari e psicologici delle società che hanno vissuto l’immane trauma».

La peste ad Atene
La prima epidemia analizzata da Breccia e Frediani fu quella avvenuta durante la Guerra del Peloponneso (431 a. C. ‒ 404 a. C.), il lungo conflitto tra Atene e Sparta che fu provocato dalle tendenze imperialistiche di Pericle ‒ il politico greco più autorevole del tempo ‒ desideroso di estendere la supremazia ateniese sul resto delle città-stato elleniche.

Durante la prima fase delle ostilità, l’Attica venne ripetutamente invasa dalle truppe della Lega peloponnesiaca, guidata da Sparta. Ciò costrinse il governo ateniese ad ammassare la popolazione rurale all’interno delle lunghe mura che si estendevano fino al porto del Pireo, rendendo così precarie le condizioni igienico-sanitarie della città.

Fu questo il principale fattore che favorì la diffusione di una misteriosa epidemia che ‒ stando alla testimonianza dello storico greco Tucidide ‒ aggrediva «sia l’apparato respiratorio che quello intestinale». Secondo molti storici, si trattava probabilmente di un’epidemia di tifo, ma altri studiosi hanno pensato a «una febbre emorragica […] precorritrice dell’Ebola», proveniente dall’Africa.

Fu, in ogni caso, un morbo del tutto sconosciuto, che imperversò anche nei due anni successivi con conseguenze altamente nefaste. Breccia e Frediani, infatti, ipotizzano «la scomparsa di almeno settantamila-ottantamila persone tra i cittadini e gli sfollati dell’Attica»: tra di loro ci fu anche Pericle, la cui morte lasciò Atene «priva di una guida nel momento più difficile della sua storia».

I suoi successori non seppero condurre in modo intelligente il conflitto con Sparta: Atene, infatti, fu definitivamente sconfitta nella battaglia navale di Egospotami (404 a.C.), venendo poi occupata dal comandante lacedemone Lisandro. Il crollo dell’impero ateniese segnò «l’inizio della decadenza politica della penisola greca», che nel 338 a.C. fu sottomessa dal re macedone Filippo II.

La peste a Roma
La seconda grande epidemia del mondo antico si diffuse nell’Impero romano tra il 165 e il 180 d.C., durante il regno di Marco Aurelio, impegnato in quel periodo nelle guerre contro i Parti, i Quadi e i Marcomanni. Fu nel corso della Guerra partica che i legionari romani furono colpiti dalla prima grande pandemia della storia ‒ la cosiddetta “peste antonina” ‒ che fu agevolata dalla stessa conformazione dell’Impero romano, strutturato come«un mondo uniforme fatto di grandi arterie, anfiteatri, terme, mura che tutto collegava grazie al diboscamento e al prosciugamento».

Secondo lo studioso Kyle Harper, il morbo sarebbe partito dallo Yemen intorno al 156 d.C., venendo poi diffuso dalle armate romane in quasi tutta l’Europa. Breccia e Frediani‒ tenendo conto delle testimonianze del medico Galeno‒ ritengono che la peste antonina fosse in realtà un’epidemia di vaiolo, causata «da un agente patogeno, l’orthopoxvirus, ospitato dai roditori, che poi l’avrebbero trasmesso agli esseri umani come Variolamaior».

La pandemia provocò «da un milione e mezzo a venticinque milioni di morti» e produsse anche una sorta di rivoluzione sociale: l’alto numero di decessi, infatti, costrinse Marco Aurelio a reclutare tra i soldati anche gli schiavi, i gladiatori e i briganti, oltre a migliaia di Germani, offrendo così «ai reietti della società la possibilità di un’ascesa».

Il morbo, inoltre, accelerò il distacco delle masse popolari dal paganesimo, favorendo la diffusione di nuovi culti religiosi come il mitraismo e il cristianesimo. Lo stesso Marco Aurelio rimase profondamente turbato dall’immane tragedia, accentuando la propria visione pessimistica della vita, come testimonia un passo della sua principale opera filosofica, i Ricordi: «Effimere e senza valore sono le cose umane: ieri un moccioso, domani mummia o cenere».

Dopo la morte dell’imperatore, avvenuta a Vindobona nel 180 d.C. durante le Guerre marcomanniche, iniziò il lento declino dell’Impero romano, che nei secoli successivi fu spesso sconvolto da disordini sociali, anarchia militare, invasioni barbariche, epidemie e carestie, fino a scomparire formalmente nel 476 d.C.

La peste a Bisanzio
Dopo una lunga fase storica caratterizzata dall’assenza di grandi epidemie, l’Europa venne devastata nuovamente da una pestilenza a metà del VI secolo d.C., durante il regno di Giustiniano, l’imperatore bizantino che‒riconquistata l’Italia con la vittoriosa Guerra greco-gotica (535-53)‒ fu l’artefice della Renovatio Imperii.

Nell’età giustinianea, l’esercito bizantino fu impegnato anche in un conflitto con Cosroe I, il re sassanide che voleva estendere i propri domini sulla Colchide e la Mesopotamia. La Guerra greco-persiana (540-45), tuttavia, si risolse senza vinti né vincitori, soprattutto perché nella primavera del 541 ‒ come testimonia lo storico bizantino Procopio di Cesarea ‒ «scoppiò una pestilenza da cui poco mancò che andasse distrutto l’intero genere umano».

Si trattò della prima pandemia di peste bubbonica, provocata dal bacillo Yersinia pestis che veniva trasmesso all’uomo dalle pulci del topo nero. Il morbo si generò in Africa orientale e fu portato in Europa dai mercanti bizantini, mietendo decine di milioni di vittime: poiché all’epoca erano sconosciute le vere cause della malattia, si diffuse la credenza che essa fosse una punizione divina «per qualche terribile colpa commessa dalla collettività».

Tra i sintomi della malattia c’era anche la formazione di «pustole nerastre grosse come lenticchie»: il morbo, pertanto, fu denominato“peste nera” e infierì soprattutto nelle città più popolose come Alessandria d’Egitto e Costantinopoli, dove le precarie condizioni igieniche favorivano la riproduzione di topi e pulci e, quindi, la diffusione dei contagi.

La pandemia sconvolse talmente l’Europa da indurre alcuni storici ‒ come Harper ‒ad affermare che il mondo tardoantico fosse finito proprio in seguito alla sua propagazione. Breccia e Frediani, tuttavia, non sono d’accordo con questa tesi e fanno notare come «non ci sono segni evidenti di una catastrofe capace di trasformare in pochi anni la situazione del mondo mediterraneo». La peste bubbonica, in ogni caso, permase in Europa in forma endemica per quasi tutto l’Alto Medioevo, scomparendo solo a metà dell’VIII secolo.

La peste del Trecento
L’avvento dell’Impero mongolico, a metà del XIII secolo, creò le condizioni idonee per una nuova virulenta pandemia di peste, che si originò in Asia centrale e si estese in seguito lungo la via della seta dalla Cina fino alle città sul mar Nero. Furono i tartari a provocare il contagio in Europa: nel 1347, durante l’assedio della città genovese di Caffa in Crimea, il khan Ganī Bek ricorse alla prima arma batteriologica della storia e fece catapultare i cadaveri dei soldati morti di peste oltre le mura urbane, infettandone gli abitanti.

I mongoli desistettero poi dall’assedio di Caffa, ma a quel punto furono i genovesi a portare involontariamente il morbo in Europa, approdando con le proprie navi a Costantinopoli e a Messina. La pandemia giunse mentre erano in corso ben 5 conflitti militari, il più importante dei quali era la Guerra dei cent’anni (1337-1453), che contrapponeva già da un decennio inglesi e francesi.

Lo scontro tra le due monarchie europee fu determinato da fattori sia dinastici (la lotta per la successione al trono francese, dopo l’estinzione del casato dei Capetingi), sia politici (l’alleanza tra francesi e scozzesi in funzione antinglese), sia economici (il controllo delle Fiandre, il principale centro industriale e commerciale europeo dell’epoca).

Ad iniziare le ostilità fu il sovrano francese Filippo VI di Valois, che requisì il ducato di Aquitania, di proprietà del re inglese Edoardo III, il quale poi invase la Francia e sconfisse l’esercito nemico a Crécy (1346), grazie agli arcieri dotati di lunghi archi. La guerra fu sospesa a causa della comparsa della peste, ma riprese un decennio dopo e proseguì a fasi alterne fino al 1453, quando il sovrano francese Carlo VII sconfisse definitivamente gli inglesi a Castillon, grazie all’uso sapiente dell’artiglieria.

La peste, durata fino al 1353, si manifestò sia sotto forma bubbonica che polmonare, evolvendo talvolta in peste setticemica con «febbre, brividi, sintomi gastro-intestinali, lesioni cutanee, cefalea, delirio e morte». Spesso il suo decorso era così rapido da annientare un individuo in pochi giorni, come ricordò anche Giovanni Boccaccio nel Decameron: «Quanti valorosi uomini […] la mattina desinarono co’ loro parenti, compagni e amici, che poi la sera seguente appresso nell’altro mondo cenarono con i loro passati!».

Tra la popolazione europea si diffuse l’opinione che la fine del mondo fosse imminente e, per ottenere il perdono dei peccati, si formò il movimento dei Flagellanti, gruppi di penitenti che «si frustavano gridando di disperazione e strappandosi i capelli». Si diffuse anche l’ossessiva caccia agli untori, che s’indirizzò soprattutto contro gli ebrei, ma anche contro stranieri, mendicanti e lebbrosi, provocando migliaia di vittime innocenti.

Alla prima ondata di peste ne seguirono ciclicamente altre, fino alla fine del secolo: il numero totale dei morti si aggirò intorno ai trenta milioni di individui, cioè a un terzo della popolazione europea. I rimedi usati contro il morbo risultarono perlopiù inefficaci, anche se si diffuse tra i medici l’abitudine di indossare un abito di lavoro formato da «una veste di cuoio, un mantello, dei guanti, occhiali di vetro e un’appendice a becco davanti alla bocca e al naso», che risultò utile per evitare i contagi.

Il crollo demografico provocò il collasso dell’agricoltura e dell’artigianato, scatenando carestie, inflazione e rivolte sociali, ma nel contempo favorì la nascita di nuovi rapporti di lavoro come la mezzadria e di nuove forme estetiche come l’arte gotica,perfetta espressione dell’«angoscia per la condizione umana sottoposta alla spada di Damocle del decesso improvviso».

In ambito militare, infine, la pandemia trecentesca favorì la diffusione delle armi da fuoco, che «permettevano di offendere il nemico a distanza, senza giungere a contatto e rischiare il contagio», ponendo così fine ai combattimenti di tipo medievale, basati soprattutto sulle cariche della cavalleria e gli scontri all’arma bianca. La peste rimase in Europa sotto forma endemica anche nel Quattrocento, ma fu contenuta facendo ricorso ai lazzaretti e alle quarantene, che nel 1403 furono introdotti per la prima volta nella Repubblica di Venezia. 

La peste del Seicento
Nel 1575 ebbe inizio una nuova ondata di peste che continuò a intervalli regolari anche nel Seicento. L’epidemia secentesca più significativa fu quella descritta da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, che sconvolse l’Italia settentrionale durante la Guerra di successione di Mantova e del Monferrato (1628-1630), un episodio minore della Guerra dei trent’anni (1618-1648) con cui ebbe fine la supremazia militare della Spagna in Europa.

La Guerra di successione di Mantova e del Monferrato scoppiò in seguito alla morte senza eredi del duca Vincenzo II Gonzaga. La sua successione fu contesa da vari pretendenti, ma in particolare da Carlo Gonzaga (duca di Nevers) e da Carlo Emanuele I (duca di Savoia): il primo fu sostenuto dal re di Francia Luigi XIII e dal cardinale Richelieu,il secondo ebbe il sostegno della Spagna e dell’imperatore tedesco Ferdinando II. Alla fine, fu Carlo di Nevers a ottenere il titolo ducale di Mantova, anche se dovette cedere il Monferrato ai Savoia.

L’epidemia di peste bubbonica ebbe inizio in Baviera, ma si sviluppò soprattutto in Svizzera, nell’Italia del Nord e in Toscana, in seguito alla discesa‒ nel settembre 1629‒ dei lanzichenecchi, i mercenari tedeschi al servizio di Ferdinando II d’Asburgo, che invasero il Ducato di Milano e saccheggiarono Mantova nel luglio 1630.

In base ai resoconti di due medici secenteschi ‒ Alessandro Tadini e Giuseppe Ripamonti ‒ Manzoni indicò l’involontario responsabile del contagio di Milano in un «fante sventurato e portator di sventura» (di nome Pietro Antonio Lovato o Pietro Paolo Locati) che, infettato dai lanzichenecchi, «andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta Orientale» e poi, essendosi aggravato, fu portato in ospedale, dove «il quarto giorno morì».

L’epidemia imperversò in Italia fino al 1633 e provocò oltre un milione di vittime, scatenando le solite reazioni irrazionali nel popolo che andò a caccia di presunti untori oppure organizzò processioni penitenziali che aumentavano i contagi. La peste si ripresentò ciclicamente in Europa fino al 1720, allorché morirono a Marsiglia circa quarantamila persone, poi, «a poco a poco, il morbo allentò la presa, pur senza sparire mai del tutto».

Nel 1855, infatti, scoppiò la terza grande pandemia di peste della storia, che dalla provincia cinese dello Yunnan si estese al resto dell’Asia e agli altri continenti, provocando oltre dodici milioni di morti. Fu nel corso di questa pandemia che il medico svizzero Alexandre Yersin isolò il bacillo della peste e capì il ruolo svolto nel contagio dalle pulci dei roditori.

L’influenza spagnola
Il connubio tra epidemie e guerre si rivelò in tutta la sua feralità durante la Grande Guerra (1914-18), allorché esplose l’epidemia che fu denominata “influenza spagnola” dalla stampa britannica «in onore di re Alfonso XIII di Spagna, ammalatosi verso la fine di maggio». Si trattava di un morbo provocato da una variante del virus H1N1, «geneticamente molto simile […] al SARS-CoV-2», che si sviluppò tra gli uccelli e venne trasmesso all’uomo probabilmente dai suini, «diffusissimi negli accampamenti militari». 

L’influenza spagnola si susseguì in tre ondate successive tra marzo 1918 e gennaio 1920, risultando particolarmente letale a causa dei continui mutamenti genetici del virus che impedirono al sistema immunitario umano di «reagire in maniera adeguata». Il numero di infetti fu molto elevato (circa 500 milioni di individui), mentre sul conteggio delle vittime non c’è accordo tra gli studiosi e le stime oscillano tra 15 milioni e100 milioni di morti.

Nel 1925, l’epidemiologo Edwin Jordan sostenne che i focolai della pandemia fossero stati tre: ««gli accampamenti militari britannici in Francia nel 1917, la Cina durante l’inverno 1917-1918 e la contea di Haskell, in Kansas, nel febbraio del 1918». In seguito, però, il virologo John Oxford ha indicato il primo focolaio dell’influenza nell’ospedale militare francese di Étaples, mentre studi più recenti hanno ipotizzato che il virus sia comparso in Cina verso la fine del 1917 e abbia raggiunto l’Europa tramite i coolies, cioè i lavoratori cinesi «utilizzati come manodopera a bassissimo costo nelle retrovie del fronte occidentale».

L’influenza spagnola condizionò le operazioni belliche, soprattutto sul fronte occidentale, rendendo meno incisive le ultime offensive della Germania, che infine perse la guerra. Il generale Erich Ludendorff ‒ capo di Stato Maggiore dell’esercito tedesco‒tentò cinque attacchi tra marzo e luglio del 1918, che furono contenuti da inglesi, francesi e statunitensi, grazie anche all’influenza diffusasi tra i soldati tedeschi. Lo storico Andrew Price-Smith, infatti, ha evidenziato come «la distruzione causata dall’agente patogeno nell’esercito germanico fu così estesa e profonda che […]oltre il 15% della forza venne colpita dall’infezione».

Il miglioramento delle condizioni igieniche, la produzione di farmaci più efficaci, il ricorso alla quarantena e al distanziamento sociale hanno evitato che malattie così letali si diffondessero dopo il 1920, anche se altre due pandemie influenzati sono esplose nel Secondo Dopoguerra: l’influenza asiatica (1957-60), che ha provocato circa due milioni di decessi; l’influenza di Hong-Kong (1968-69), che ha causato circa un milione di morti.

Rispetto alle pandemie novecentesche, dunque, quella provocata dal coronavirus Sars-Cov-2 sta facendo registrare un’incidenza minore in termini di perdite umane, ma è indispensabile che siano al più presto somministrati alla popolazione mondiale i vaccini tuttora in fase di sperimentazione, onde evitare che le nuove ondate del contagio porti la mortalità complessiva a livelli drammaticamente ancora più elevati. epidemie

Giuseppe Licandro

(www.excursus.org, anno XIII, n. 95, febbraio-aprile 2021)