Nello sciame. Visioni del digitale – Byung-Chul Han

di MICHELE CAVEJARI – «Arranchiamo dietro al medium digitale che, agendo sotto il livello di decisione cosciente, modifica in modo decisivo il nostro comportamento, la nostra percezione, la nostra sensibilità, il nostro pensiero, il nostro vivere insieme. Oggi ci inebriamo del medium digitale, senza essere in grado di valutare del tutto le conseguenze di una simile ebbrezza. Questa cecità e il simultaneo stordimento rappresentano la crisi dei nostri giorni».

L’agile saggio di Byung-Chul Han, intitolato Nello sciame. Visioni del digitale (nottetempo, pp. 112, € 12,00), si apre con un tagliente preambolo. Al centro di quest’ultimo, lungo nemmeno una pagina, si staglia lucida e spiazzante l’esegesi del dispositivo digitale – riportata sopra – in chiave politico-antropologica: insospettabile fucina dell’immaginario sociale, segno più che oggetto, depositario di un senso prestabilito ancor prima di costituire un veicolo d’espressione.

Han, brillante filosofo contemporaneo nato a Seul, stringe quindi l’obiettivo sulle modalità peculiari della comunicazione moderna e si sofferma, con stile conciso ed essenziale, sull’opposizione radicale fra racconto di sé e proiezione di sé nel virtuale. Più nel dettaglio, mette a fuoco con la massima chiarezza espositiva la costrizione alla trasparenza e allo sproloquio cui l’utente è chiamato in via incoercibile.

Gli apparati digitali e le superfici touch infatti non sono mai solo strumenti. Il fantasma della vigilanza capillare e onnipresente si radica nelle più intime architetture hardware e nelle più confidenti interfacce software. Il medium si fa così prototipo d’organizzazione sociale, mentre l’utente, paludato in ampi bacini d’informazione, addestrato ad esigere la massima trasparenza di fonti e risorse, non comprende di essersi già messo a nudo a sua volta.

La medialità digitale dopotutto è voyeuristica, spiega Han; lascia decadere la discrezione e il rispetto, così come la possibilità di serbare riguardo, affinché tutti osservino e si giudichino a vicenda.

La condizione d’esistenza è dettata dall’esibizione costante, dallo sproloquio, dall’esortazione all’enunciazione. Chi non commenta, non conta; chi non appare, non è.

La soggettività cessa pertanto di raccontarsi e di narrare; si limita ad addizionare frammenti, parole, indiscrezioni, e viene trasfigurata in un flusso caotico a disposizione di tutti che l’autore del libro chiama per l’appunto costrizione icono-pornografica: «l’assenza di distanza porta a una commistione di pubblico e privato: la comunicazione digitale favorisce questa esibizione pornografica dell’intimità e della sfera privata».

In sostanza, argomenta Han, i medium digitali non incentivano il dialogo, ma decostruiscono il discorso e isolano, nonostante nell’utente sia ben radicata un’idea di massima auto-efficacia comunicativa e relazionale. È così che parimenti i medium montano, scemano e passano senza lasciare traccia, in special modo le reazioni (per così dire) indocili e riottose del dissidente 2.0.

L’indignazione superficiale e il ribellismo, d’altra parte, costituiscono le merci più fortunate delle piattaforme social. De gustibus, l’utente rilancia un post e scaglia l’invettiva in bacheca. Remoto e isolato nell’autismo del display, questi ritiene di aver agito in modo deliberato e concreto, perciò di aver fenduto il silenzio omertoso, di aver “fatto la propria parte”. In verità, elucida Han: «l’indignazione digitale […] rappresenta, piuttosto, uno stato affettivo, che non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni […]. La massa indignata di oggi è oltremodo superficiale e distratta, le manca qualsiasi massa, qualsiasi gravitazione necessaria per le azioni. Non genera alcun futuro».

Incapace di reperire né un’anima né un’identità stabile, lo sciame non ha peso. Esso non sviluppa alcun noi, ma giunge a identificare al massimo un assembramento occasionale, transitorio e destinato a disperdersi rapidamente una volta conclusa la shitstormo, ovvero lo smart mob di turno. Lo sciame non è socius ma solus, non è corpo ma somma di punti.

In definitiva, seguendo l’analisi di Byung-Chul Han, l’apparente possibilità di comunicare velocemente e ovunque dissimula la costrizione iconica che grava sul soggetto; la dissimulata trasparenza nasconde la costante videosorveglianza e consegna l’utente-cliente alla piena leggibilità da parte del potere (ergo del Mercato). L’illusione della “piazza virtuale” nasconde un solipsismo dilagante e privo di energie politiche; l’iperattivismo, veicolato dall’aggiornamento costante, annega il tempo in un presente eterno, senza direzione e quindi orfano di spazi per l’azione. L’overdose informativa cancella la possibilità di narrare se stessi e costruire una storia comune, che possa durare nel tempo, sostituendovi al più una cronologia additiva di commenti destinati destinati all’oblio pressoché istantaneo.

A scanso di equivoci, è bene sottolineare che l’opera di Han non consiste affatto in una presa di posizione contro la tecnologia. Non mira cioè alla demonizzazione dello strumento, né tantomeno intende veicolare una critica “costruttiva” diretta a un qualche miglioramento tecnico o contenutistico. Se vogliamo, Byung-Chul Han non pretende nemmeno di suggerire un utilizzo “anarchico” del digitale, dacché – come emerge nel corso del saggio –non è ipotizzabile alcun uso ab ovo sganciato che non sia previsto dalla ratio originaria del medium.

Nello sciame, molto più semplicemente, denuncia la pervasiva mitologia della trasparenza e se ne lascia inquietare serbando tutto lo spessore della ricerca socio-antropologica. Nulla più; ogni debita conclusione è rimessa all’intelligenza del lettore.

Byung-Chul Han propone senza dubbio una lettura ricca di spunti e di passaggi concettualmente raffinati, al pari però, e questo ne restituisce forse il più grande pregio, sdoganando al grande pubblico temi di regola riservati all’ambiente accademico, e questo costituisce forse il suo più grande pregio. L’autore si esprime con frasi semplici, dirette, confidenti accessibili persino al verso il lettore a digiuno di filosofia.

Pur nella sua scioltezza, la trattazione serba in ogni caso una vasta letteratura di riferimento e talvolta condensa en passant, in pochi passaggi, intere fatiche e conquiste del pensiero moderno. La ricchezza di contributi, dobbiamo specificarlo, non contraddice però quanto riportato sopra in termini d’agilità di consultazione. All’opposto, ne estende la prospettiva suggerendo nomi e pensatori capitali da approfondire in separata sede. Fra questi: Hannah Arendt, Roland Barthes e naturalmente Michel Foucault. Di quest’ultimo, Han prosegue l’indagine e ne trasla le variabili sui campi del digitale. Il risultato si esprime giocoforza nel superamento dei neologismi foucaultiani di biopolitica e soggetto d’obbedienza negli emblematici psicopolitica e soggetto di prestazione; paradigmi necessari per decifrare i tratti della società contemporanea: una realtà che non piega fisicamente la volontà dei singoli con comandi e divieti (appannaggio di un ormai superato potere disciplinare) ma bensì plasma psicologicamente con il gergo lusinghiero della possibilità illimitata, dell’appetibilità, della positività.

Michele Cavejari Byung-Chul Han

(www.excursus.org, anno IX, n. 86, settembre-ottobre 2017)  Byung-Chul Han