Viaggio d’inverno – Vittoria Serena e Claudia Zaggia

SerenaViaggioDinvernodi ROSSELLA FARNESE – «Dono vano, dono casuale, / Vita, perché mi fosti data? / O perché da un destino misterioso / A morte fosti condannata?». Sono alcuni famosi versi diAleksandr Sergeevič Puškin, datati 26 maggio 1828 e inglobati nella raccolta di traduzioni di Giovanni Giudici e Giovanna Spendel, edita Mondadori nel 1985, intitolata Viaggio d’inverno.

Puškin era uno degli autori preferiti di Vittoria Serena e non è un caso che sia stato scelto proprio Viaggio d’inverno come titolo dei suoi scritti, curati da Claudia Zaggia (Alberto Liberali Editori, pp. 122, € 10,00). Vittoria Serena è morta suicida a diciannove anni: era il 13 ottobre 2014 quando, soffocata dal male di vivere, si è inabissata nel vuoto, impiccandosi con la cintura dell’accappatoio nel suo appartamento di Padova, in via Calfura 15.

Poteva restare una delle tante notizie di cronaca nera che scuotono gli animi qualche attimo per poi sbiadirsi nell’oblio, che investe le vite infrante, come se su questi labili fiori caduti calasse pian piano un sipario, come se il mantello della morte li riavvolgesse una seconda volta, per sempre. Poteva, ma non lo è rimasta, perché come tutte le notizie di cronaca nera ha inciso in eterno cicatrici indelebili negli animi di chi ha perso un’amica, una fidanzata, una figlia. Il libro nasce infatti su iniziativa della madre, Terry Bonaldo, che ha raccolto alcune poesie, riflessioni e racconti brevi della figlia e, dalle sue cicatrici, le ha ridato il soffio della vita, così la piccola Vittoria, splendente con i suoi capelli rossi, volteggia nell’aria come una fenice rinata dalle proprie ceneri. Del resto, «di scrittura si muore e si rinasce».

Vittoria aveva un sogno: voleva diventare una scrittrice: se quel brutto male di vivere che «è qualcosa che ti muore dentro mentre cresci» – spiega Claudia Zaggia ricostruendo per frammenti una breve biografia di Vittoria – l’ha strappata alla vita, la scrittura l’ha destata dalle tenebre. Come nel Racconto d’inverno shakespeariano la musica, invocata da Paolina, ha fatto scendere dal piedistallo la statua di Ermione, così la realizzazione di questo volume ha regalato a Vittoria un’ultima corsa, libera e sorridente, verso la vita, verso un luogo dove poter stare bene e che Vittoria immaginava di fronte al mare, d’autunno, senza nessuno intorno, «dove la terra finisce e inizia l’infinito altro».

Vittoria aveva iniziato presto a scrivere, a dodici anni, e non aveva più smesso. Si chiedeva se lo scrivere fosse una chiamata, una vocazione, un po’ come Novalis nel Monologo, di sicuro le sue Moleskine nere sarebbero state sempre con lei, scriveva infatti: «Ci sono solo io: un elegante quadernetto nero a farti compagnia, potrei aiutarti se saprai utilizzarmi nel modo giusto. Ogni volta che ti sentirai scoppiare il cuore, io ci sarò. Come un migliore amico, uno dei più fedeli».

Scrivere era per lei un modo per esprimere la sua sofferenza e per condividere la sua angoscia, era la superficie visibile del suo mondo inaccessibile, nascosto agli altri.

Nelle Lezioni americane Calvino ribadisce che, sin dall’antichità, si ritiene che il temperamento saturnino sia proprio di artisti e poeti e sostiene che non ci sarebbe stata letteratura se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione e a una scontentezza per il mondo così com’è. Anche Vittoria era convinta che ogni poesia nascesse dalla malinconia, tristezza diventata leggera, come dice sempre Calvino. Scrivere era quindi per lei un modo per dare forma all’insostenibile leggerezza della vita che avvertiva con meraviglia. Uno dei primi scritti di Viaggio d’Inverno s’intitola Una coccinella color cannella e liquirizia: è la descrizione dell’incontro tra Vittoria e una coccinella che camminava sulla copertina di un suo libro. Proseguendo troviamo alcuni versi, quasi un complemento, una spiegazione di questa semplice, puntuale ed elegante annotazione: «Sono le piccole cose, / quelle che ci servono / piccole cose, / briciole di vita che si perdono / piccole cose / quelle che cambiano il passo al giorno / prima di chiudere gli occhi al mondo». Vittoria scriveva perché «nella scrittura c’è un amplesso, un amplesso con l’anima che lava via dal corpo il grigiore della produzione in serie».

Da piccola giocava con un amico a prendere le nuvole, si definiva «fragile come un vaso di cristallo», sentiva battere nel suo petto «un uccellino di cemento», era un’ungarettiana fibra dell’universo che voleva lasciarsi trascinare dalla corrente «come un piccolo oggetto senza importanza», ma non riusciva a staccarsi da terra senza lasciarci una piuma.

Vittoria amava la vita in modo struggente, ne era invasata come in estasi: «Qui si piange solo di gioia, per essere vivi sempre e ovunque». Partecipava alla rilkiana melodia delle cose e non voleva essere travolta dalla brutalità della realtà, era nauseata dalla superficialità della folla tra la quale avrebbe voluto camminare come la passante di Baudelaire — uno dei suoi poeti preferiti — senza mai mescolarsi ad essa, con lo sguardo del flaneur. Era consapevole di sentirsi invece «inadatta, terribilmente fuori luogo, quasi inutile alla vista altrui» e si chiudeva in se stessa «come un feto nel ventre materno», non voleva fornire all’interlocutore un punto d’accesso alla sua interiorità, quasi dovesse «essere duramente giudicata e, poi, ingiustamente condannata». Certa di essere «un controsenso» oscillava, sensibile e angosciata, tra lo slancio verso la vita, la luce dei suoi raggianti capelli, e il silenzio «dentro una torre d’avorio e calcare» chiusa a chiave, «la smorfia che malamente deturpava il suo volto». Cercava di conoscere meglio le sue ombre leggendo Freud e Jung per convivere con quel suo «piccolo essere malato»: Vittoria e Giulia, che in una lettura psicoanalitica rappresenterebbe il suo lato oscuro, la sua inseparabile amica, sono i nomi delle protagoniste del racconto breve La nostra storia.

Non aveva ancora definito la sua poetica: «Scrivere. / “Ma cosa ci scrivi dentro?” / ”Un poco di tutto, pensieri.” La verità è che ho un estremo bisogno di tutte queste pagine, e tutte per me».  Componeva poesie senza una metrica e senza uno studio scolastico, ma aveva già chiaro cosa fosse per lei la poesia: «la poesia è carne tra i denti / e sentimenti sotto inchiesta».

Vittoria annotava i ricordi che affollavano la sua mente: «basta un profumo, una parola, un oggetto», scriveva, e si immergeva proustianamente à la recherche du temps perdu. Tra le sue pagine parlava del nonno di cui ogni gesto era rimasto impresso nella sua mente di bambina e del cagnolino «divertente, sempre caldo e vivo» che preferiva alle bambole «immobili, fredde e sempre uguali».

Vittoria era molto affezionata alla madre e avrebbe voluto essere come lei: «una donna che si gode la vita, nonostante le malattie, le perdite e i dolori», forte, con «un bellissimo sorriso» che raramente lasciava il suo volto. Di suo madre in particolare amava gli occhi che definiva «color del tempo», il suo colore preferito, quel particolare tipo di azzurro.

Vittoria celebrava la bellezza: «Sorella Arte Brindiamo all’Arte che rende l’occhio felice e il pensiero eterno […] Brindiamo all’Arte unica via di salvezza in un mondo sepolto dal Presente». Scriveva le sue impressioni di lettura: «Sto leggendo il primo romanzo di Dostoevskij “Povera gente”[…] I suoi personaggi sono la sofferenza, il dolore e la forza». Dostoevskij era tra i suoi narratori preferiti «perché nei suoi romanzi la discesa nelle oscurità della sofferenza, del peccato e del male sono un modo per cercare la salvezza», commenta Claudia Zaggia.

Vittoria si interrogava sull’amore, su quella parola che «se fosse un uccello sarebbe un pettirosso».

Le pagine di Viaggio d’inverno regalano le sfumature dell’arcobaleno della vita, suonano tutti i tasti del pianoforte della nostra anima e l’effetto non è affatto dissonante perché il caos è l’armonia. Da alcune considerazioni si sprigionano freschezza, grazia, sensualità, bellezza: «Vorrei che ci fosse un ciliegio oltre la mia finestra, un ciliegio che accompagni i miei pensieri ad ogni curva pericolosa, salvandomi come il più abile dei soccorritori. Vorrei che ci fosse un Giappone oltre il mio paesino, un Giappone che gonfi il mio cuore con le sue tradizioni di seta. Un Giappone che mi mostri come il mondo possa portare l’uomo ad amare la vita, amarla fiore dopo fiore». Altre, come la pagina accanto, ospitano invece riflessioni più acute a tinte simboliste, che ricordano i Chants de Maldoror di Lautréamont, immagini allucinate, quasi espressionistiche, dove riecheggiano i Canti orfici di Campana: «Treni addormentanti/come scarafaggi sotto/uno scaffale./Miasmi putrescenti/ salgono alle mie narici/ dal cuore della disperazione./Tutto/a sua immagine/e somiglianza./I fanali/delle macchine/come occhi di satana/ mi osservano/da ogni dove./Il pericolo/è vicino./Il pericolo/è la solitudine».

Alla ricerca di un genere e di uno stile, di una cosa Vittoria, forse inconsapevolmente, era sicura: «il dettaglio è inflessibile», come afferma Wislawa Szymborska in La gioia di scrivere. Gioia che sentiva anche Vittoria: «Io vorrei diventare una scrittrice, so che sarà lunga la strada da compiere ma so che posso farcela se mi convinco che scrivere è l’unica cosa che amo veramente». Gioia che si prova leggendo Viaggio d’inverno e che permane dopo averlo chiuso.

Rossella Farnese

Post scriptum

Non ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Vittoria. Ho saputo della pubblicazione del libro assistendo alla presentazione svoltasi il 18 marzo 2016, voluta da Terry Bonaldo presso la Biblioteca di Palazzo Maldura, a Padova, sede del corso di studi intrapreso dalla figlia. Durante la presentazione sono intervenuti Claudia Zaggia, lo scrittore Fulvio Ervas, lo psichiatra Diego De Leo e Franco Antonello, fondatore dell’Associazione Onlus “I Bambini delle Fate”, alla quale sarà devoluto l’intero ricavato della vendita del volume, perché Vittoria aveva conosciuto sin dall’asilo il figlio di Franco Antonello, Andrea. Terry Bonaldo sta organizzando altre presentazioni, la prossima delle quali si terrà il 23 settembre 2016 al Teatro Accademico di Castelfranco Veneto, perché, come aveva scritto Vittoria, pubblicando su Facebook la canzone dei Radiohead How to disappearcompletely, il giorno prima di morire, «non è mai un addio».

(www.excursus.org, anno VIII, n. 75, settembre 2016)