Ritornerai a Región – Juan Benet

di ALICE TORREGGIANI – «Forse la decadenza inizia un mattino agli sgoccioli dell’estate con una riunione di militari, fanti e battitori disposti a rastrellare il monte in cerca di un giocatore d’azzardo, il dongiovanni straniero che una notte al casinò si alzò con il suo onore e il suo denaro; la decadenza non è che questo, la memoria e il polverone di quella cavalcata lungo il cammino del Torce, la frenesia di una società sfinita e disposta a credere che avrebbe recuperato l’onore assente in un burrone della Sierra, in un sacco di pezzi di madreperla e in una vendetta di sangue».

Ritornerai a Región di Juan Benet (traduzione di Piero Dal Bon e Sebastiano Gatto, Amos Edizioni, pp. 480, € 20,00) è uno dei grandi romanzi europei del Novecento ed è un’elaborata riflessione sulla decadenza del genere umano, di cui vengono presi come campione universalmente valido gli abitanti di Región, un luogo fittizio collocato nella Spagna della Guerra Civile.

Región è descritta dettagliatamente nel suo paesaggio e gli elementi del territorio sono veri e propri protagonisti della storia, in una sorta di antropomorfismo della natura, che sovrasta l’uomo con una potenza inarrestabile. Si tratta di una regione ostile, con un clima impietoso e una conformazione fisica che rende impossibile la sopravvivenza: meseta, selva e sierra sono deserte, popolate solo da insetti. È un luogo inaccessibile al viaggiatore, a cui viene proibita l’entrata in modo perentorio, relegando la zona in una dimensione mitica.

Non a caso, il simbolo di Región sono i pastori, essendo l’allevamento l’unica forma di sostentamento praticabile: sono descritti con tratti e comportamenti animaleschi, uomini primitivi dall’aspetto spaventoso. A tratti la natura è descritta anche benevolmente, come ricca e meravigliosa; ma anche in questo caso nasconde pericoli e si rivela fondamentalmente spietata e ingannatrice.

In tale luogo vive una popolazione perfettamente in sintonia con esso, poiché arretrata e in decadenza, chiusa al progresso e timorosa del futuro, che vive di superstizioni e in cui la famiglia ha assoluto potere decisionale sulla vita dei singoli componenti: i genitori determinano l’avvenire dei propri figli, negandogli la possibilità di progettare, ambire o desiderare e tenendoli ancorati a questa eterna arretratezza.

Questo romanzo non può essere classificato come storico perché, nonostante il contesto, non fa riferimenti precisi a eventi o personaggi noti, ma situa la storia in una dimensione quasi astratta. La fratricida Guerra Civile tra i repubblicani di Región e i ribelli nazionalisti di Macerta è presentata come un’inutile e ripetitiva sequenza di conquiste e riconquiste di territori, vuota di alcuno scopo e congelata in un tempo mitico. Questa cristallizzazione atemporale del conflitto è resa palese dai frequenti riferimenti alla medievale guerra carolingia contro i Mori, invasori della penisola iberica.

La guerra è presentata, quindi, con un’accezione del tutto negativa, senza che Juan Benet mostri di simpatizzare per l’uno o per l’altro fronte. Quello repubblicano viene mostrato più volte come un corpo malato, che si corrompe e decade, nonostante gli alti ideali e la forte spinta iniziale. I nazionalisti, d’altro canto, sono guidati da colonnelli spinti da motivazioni e passioni personali, che fanno della guerra una propria campagna o vendetta che nulla ha a che vedere con lo scopo comune.

Gli episodi del conflitto si alternano a lunghissime sequenze descrittive e soprattutto riflessive, caratterizzate da una sintassi complessa con periodi lunghi e ricchi di subordinate. Ciò può scoraggiare il lettore più impaziente, poiché non è di facile comprensione, ma richiede uno sforzo di concentrazione non indifferente, che però è premiato dalla ricchezza e dalla profondità della scrittura di Juan Benet. Ogni frase è cesellata alla perfezione e si incastra con assoluta precisione nella narrazione.

Juan Benet mostra di avere una visione fortemente pessimista della vita e dell’uomo, che viene descritto come assediato dalla paura, una condizione esistenziale che obbliga ad abbandonare le ambizioni, a negarsi il futuro che si desidera e a rinchiudersi nella solitudine. La paura è senza alcun dubbio il sentimento più presente nel romanzo, come a voler dimostrare che l’uomo è debole e codardo. Essa spinge a preferire la repressione all’incertezza; repressione che non è attuata da altri individui, ma dallo stato, dalle religioni e dal bene comune, che sembrano incarnare il male assoluto. I giovani vengono definiti «cumuli di delusioni» poiché non hanno modo di sviluppare le proprie potenzialità, e l’uomo, che vive solo per se stesso in un terreno di odio, viene paragonato a uno scarafaggio che cerca invano di arrampicarsi su uno scalino finendo sempre a gambe all’aria. Il progresso richiede un prezzo che l’umanità non è in grado, o meglio non vuole, pagare. Il progresso è sacrificio.

«In realtà il presente è poca cosa: quasi tutto fu». L’intero libro gioca con il tempo, che è un tema strettamente legato a quello della decadenza. Passato, presente e futuro si mescolano e si sovrappongono continuamente, creando una dimensione eterna in cui tutto succede ma niente cambia. È un tempo pigro e imbroglione, a cui si affidano scioccamente le speranze quando è proprio lui a farle morire. Il presente in rovina non è giustificato da un passato glorioso, che la memoria tenta inutilmente di costruire come scusa per la decadenza. Il futuro, invece, incombe in modo opprimente, attraverso aspettative della famiglia, destino, premonizioni e vecchiaia, ma allo stesso tempo non esiste, perché si è bloccati in un eterno presente.

Juan Benet scrive che l’uomo attraversa tre età diverse. La prima è l’età dell’impulso, in cui tutto è ovvio e ciò che ci muove non necessita di giustificazione. La seconda è l’età della maturità e della ragione, in cui la pulsione è accompagnata dalla riflessione. La terza è l’età dell’alienazione, caratterizzata dal ripudio della vita stessa e dalla perdita di scopo e motivazione. Questa è una deriva da evitare con tutte le proprie forze per poter vivere una vita tranquilla. Gli abitanti di Región, invece, non hanno mai conosciuto le prime due, ma solo l’ultima, incagliandosi sulle coste di una vita talmente aspra e ostile da non potersene più liberare.

Alice Torreggiani

(www.excursus.org, anno IX, n. 84, luglio 2017)