Con gli occhi chiusi – Federigo Tozzi

di SIMONA CASADIO – Federigo Tozzi nasce a Siena il primo gennaio 1883. Il padre, rigido e poco incline agli affetti familiari, gestisce una trattoria nella stessa città e possiede alcuni poderi fuori porta, fra cui quello di Castagneto dove la famiglia si trasferisce nei mesi estivi. La madre, di salute malferma e soggetta a crisi convulsive, muore nel 1895, lasciando il figlio ad una vita disordinata e solitaria: faticosi per lui furono gli studi e i rapporti sociali.Con gli occhi chiusi

Ci si riferisce persino a segni di un disadattamento ai limiti del disagio psicopatologico» [1], ma l’eccessiva sensibilità è accostata alla consapevolezza di essere inadatto a curare e continuare gli affari del padre e mostra, anche se nei primi tempi confusamente, di volersi esprimere in maniera differente, nella scrittura o in occupazioni simili.

Questi sono solo alcuni degli elementi autobiografici che si ritrovano nel romanzo Con gli occhi chiusi (Introduzione di Giuseppe Nicoletti, Garzanti, pp. 168, € 9,00), il solo nella produzione tozziana ad aver avuto una gestazione complessa e sofferta. Infatti, se la matrice autobiografica può dirsi indiscutibile, ciò si palesa non tanto nella macrostruttura o nella trama o nelle condizioni generiche, quanto più in piccoli nuclei di verità, «minute circostanze […] passate al vaglio di una memoria assai vigile» [2].

Lo stesso personaggio di Ghìsola, che avrebbe dovuto prestare il nome al romanzo secondo un primo progetto, ha anch’esso una parte nell’esperienza reale dell’autore. Si risale infatti senza difficoltà al binomio Ghìsola-Isola, contadina, quest’ultima, di cui Tozzi s’innamorò da ragazzo.

Nonostante appartengano a due classi sociali distinte e opposte — quella dei sottoposti, «gli assalariati», e quella dominante, dei padroni, rapporto invertito nelle individualità della loro relazione — Pietro e Ghìsola sono «fatti della stessa pasta» [3].

Il loro comune disadattamento si esprime in atteggiamenti agli estremi. Da una parte Ghìsola, ponendosi scaltra e smaliziata, ostenta una sicurezza non conciliabile con la sua interiorità spezzata. «Talvolta, le veniva voglia di nascondere tutto il viso; e di restare così; di non essere veduta che dall’aria». Pietro, al contrario, non si pone mai per quello che non è, tutte le sue debolezze sono evidenti, e anzi si può dire che non si ponga affatto. Procede a testa bassa, «e nessuna cosa era adatta per lui; le strade troppo faticose, il sole troppo caldo, gli abiti tagliati male, le mani troppo grosse», con la leggera e innocua cattiveria di chi continuamente è minacciato, «incapace di sottrarsi a una specie di spavento a cui s’era abituato; subendo quel fascino di allontanamento, che talvolta gli dava un terribile benessere».

Pietro e Ghìsola sono quindi simili, ma non compatibili. Emarginati e irregolari, si comportano alla stessa maniera senza però riuscire a riconoscersi, se non per pochi istanti e più per stanchezza e casualità. Le esperienze differenti e l’irreparabile «scissione fra affettività e sessualità» [4] rendono doloroso ogni contatto. «Vi sono esseri che non chiedono nulla a nessuno e rinunziano a tutto; e, non essendo rispettati come gli altri, pare che di loro se ne possa fare quel che si vuole. […] Se qualcuno li ama, non vogliono cambiarsi; chiedendo che cosa questo bene esiga. E allora lo evitano».

«Perché non guardi sempre me?» e «abbassava le palpebre tutte le volte che incontrava il suo sguardo»: a partire direttamente dal titolo, vi è un continuo riferimento alla vista ed emerge la metafora «degli occhi che abbagliano o si chiudono» [5], si cercano ma non si trovano e, quando potrebbero trovarsi, per paura fuggono il contatto. La vista non costituisce più uno strumento affidabile di comprensione della realtà e già nel romanzo epistolareNovale (Le Lettere), pubblicato postumo, il motivo è presente: «la mia donna aveva gli occhi neri; ma io non sono mai stato capace di scrutarli perché m’abbagliavano e tremavo. […] Ecco: chiudendo gli occhi la rivedo, ma non bene» [6]. Altra conferma, inoltre, dell’autobiografismo: «i suoi occhi neri […] due olive che si riconoscono subito nella rama», gli occhi di Ghìsola.

A ciò si uniforma anche lo stile, una «poetica di radicale introspettivismo» [7], incurante dell’esterno, che fissa anche quelle «cose che sembrano meno suscettibili d’esser scritte» [8]. Inoltre, il punto di vista è variabile e la tecnica dello stile indiretto libero attenua «la distanza oggettiva dell’intermediazione autorale» [9], a rafforzare l’urgente soggettività in ogni parte del romanzo. A esasperare, invece, l’incapacità di Pietro di partecipare ai fatti, alcuni nodi narrativi non vengono precisati, ma vi si allude con brevi scorci o deviazioni: «un giorno, mentre egli faceva colazione, seppe che Ghìsola era tornata a Radda: Rebecca lo diceva ad Adamo». A lui rimane, quindi, solo lo stupore. Con gli occhi chiusi

Lo stesso Tozzi confessò «d’ignorare le “trame” di qualsiasi romanzo» [10] e di avere l’abitudine di aprire le pagine in maniera casuale e leggere un periodo, interessato piuttosto a brandelli che mostrino «una qualsiasi parvenza della nostra fuggitiva realtà» [11]. A causa di questa inclinazione propria dell’autore, la narrazione si piega verso una struttura differente da quella tradizionale: si forma «di comportamenti, di modi insindacabili di apparire e di esistere» [12]. È «l’innato antinaturalismo», secondo una formula debenedettiana, poiché se «il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi narra in quanto non può spiegare» [13].

Simona Casadio Con gli occhi chiusi

NOTE BIBLIOGRAFICHE

[1] GIUSEPPE NICOLETTI, Introduzione a FEDERIGO TOZZI, Con gli occhi chiusi, Garzanti, Milano, 2015, p. VII.
[2] Ivi, p. XVI. Con gli occhi chiusi
[3] Ivi, p. XXVIII.
[4] Ivi, p. XXIX. Con gli occhi chiusi
[5] Ivi, p. XVII.
[6] F. TOZZI, Novale, Le Lettere, Firenze, 2007.
[7] G. NICOLETTI, Introduzione, cit., p. XXIV.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. XXV.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.

(www.excursus.org, anno IX, n. 84, luglio 2017)