Piccoli equivoci senza importanza – Antonio Tabucchi

di ROSSELLA FARNESE – «La vita è un appuntamento, lo so di dire una banalità, Monsieur, solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove. E allora uno pensa: se avessi detto questo invece di quello, o quello invece di questo, se mi fossi alzato tardi invece che presto, o presto invece che tardi, oggi sarei impercettibilmente differente, e forse tutto il mondo sarebbe impercettibilmente differente […] Un appuntamento e un viaggio, anche questa è una banalità, mi riferisco alla vita, naturalmente, chissà quante volte è stato detto; e poi nel grande viaggio si fanno dei viaggi, sono i nostri piccoli percorsi insignificanti sulla crosta di questo pianeta che a sua volta viaggia, ma verso dove? È tutto un rebus […] E poi, sa com’è la vita, è come una tessitura, tutti i fili si intrecciano, è questo che un giorno vorrei capire, vedere tutto il disegno […] la vita è un ingranaggio, una rotella qua, una pompa là, e poi c’è una cinghia di trasmissione che collega tutto e trasforma l’energia in movimento, proprio come nella vita, un giorno mi piacerebbe capire come funziona la cinghia di trasmissione che lega tutti i pezzi della mia vita, il concetto è lo stesso, bisognerebbe aprire il cofano e stare lì a studiare il motore che ronza, collegare tutto, tutti gli istanti, le persone, le cose».

Attraverso tali parole, tratte da Rebus, il terzo degli undici racconti che compongono Piccoli equivoci senza importanza, raccolta di Antonio Tabucchi, pubblicata nel 1988 da Feltrinelli (pp. 152, € 6,50), si delinea il fil rouge dell’opera, che propone un’interpretazione di fondo della vita, intesa appunto come un rebus dove tutto è affidato al caso. Vibra costante negli undici racconti l’inquietudine del “cosa sarebbe successo se”, il fascino attraente delle strade non percorse, del non detto e dell’insopprimibile e insopportabile voglia di riscrivere le nostre vite.

Come spiega Antonio Tabucchi stesso nella Nota introduttiva, l’equivoco è da lui elevato, come in epoca barocca, a metafora del mondo. «Malintesi, incertezze, comprensioni tardive, inutili rimpianti, ricordi forse ingannevoli, errori sciocchi e irrimediabili» costituiscono l’ossatura dei racconti, storie non lineari, che si snodano attraverso molteplici salti temporali, eventi immaginari, sogni, ricordandoci che siamo esseri umani gettati nel corso degli eventi,scagliati nell’esistenza. Per scomodare Jean-Paul Sartre, egli così sosteneva nella conferenza “L’existentialisme est un humanisme”: «L’homme est seulement, non seulement telqu’il se conçoit, mais telqu’il seveut, et comme il se conçoit après l’existence, comme il se veutaprèscetélanvers l’existence […] Car nous voulons dire que l’homme existe d’abord, c’est-à-dire que l’homme est d’abord ce qui se jettevers un avenir, et ce qui est conscient de se projeter dans l’avenir».

A differenza di Sartre, però, che insiste sull’idea di scelta, di progetto e di responsabilità di ciò che si è, i personaggi di Antonio Tabucchi non prendono decisioni bensì sono guidati dagli eventi, sono i loro atteggiamenti a essere le scelte: «la vita è così brava a sclerotizzare le cose, e gli atteggiamenti diventano le scelte».

Il destino è ineluttabile, non si riesce a infrangerlo, l’irrinunciabile desiderio di cambiamento si traduce in azioni mancate, declinate come rimpianto e nostalgia, perché la storia è già scritta, perché la vita è determinata da quei piccoli equivoci senza importanza, appunto, che lavorano nell’ombra mettendo in discussione le nostre certezze, lasciando solo il dubbio, o meglio, da quei piccoli equivoci senza rimedio, come si dice nel primo racconto che dà il nome alla raccolta: «tutto era davvero un piccolo equivoco senza rimedio che la vita si stava portando via, ormai le parti erano assegnate e era impossibile non recitarle».

Protagonisti del racconto d’apertura sono tre amici di vecchia data, Tonino, Leo e Federico. I primi due si iscrivono a Lettere Moderne, Federico a Lettere Classiche ma per un disguido viene immatricolato a Giurisprudenza. Lo sbaglio del segretario, un lapsus, un piccolo equivoco senza rimedio o senza importanza, come lui stesso lo definisce, determinerà la fortunata carriera giuridica di Federico. Anni dopo i tre si ritrovano in un’aula di tribunale dove Federico deve giudicare Leo, accusato di terrorismo. Tonino, che assiste al processo in veste di cronista, intraprende un viaggio interiore tra presente e passato, tra i ricordi del periodo giovanile, degli anni di quell’indimenticabile legame di amicizia, riportando alla memoria le canzoni preferite e l’amore comune per Maddalena, ragazza dai capelli rossi, che li aveva fatti innamorare a passo di danza e di cui giunge solo una notizia di un intervento di mastectomia.

Lo sguardo disincantato di Antonio Tabucchi induce a riflettere sull’ironia della vita: non siamo artefici del nostro destino, un’ineludibile anànke determina la nostra esistenza gettandoci in balia del disordine degli equivoci senza farci riuscire a focalizzare un disegno compiuto nella realtà, lasciando solo la possibilità di «regolare sulla simmetria delle pietre la nostra infantile decifrazione del mondo ancora senza scansione e senza misura».

Il criptico e immobile racconto successivo, Aspettando l’inverno, è una descrizione dei giorni che seguono la morte di un noto scrittore. La vedova, affranta per il lutto, deve ricevere numerose visite di circostanza tra cui quella di un ministro, di un giornalista, da cui è intervistata, e di un editore tedesco, che vorrebbe pubblicare il diario del defunto. La donna congeda quest’ultimo chiedendo un po’ di tempo per decidere e, rimasta sola in casa, davanti al camino, gioca con una pendola cinese portando avanti e indietro le lancette, in una scena che potrebbe in parte ricordare il celebre film di Ingmar Bergman Il posto delle fragole (1957): «Cominciò a far girare le lancette con un dito, con determinata lentezza, e la pendola batté allegramente le otto, e poi le nove, le dieci, le undici, le dodici. Le fece fare il giro completo e disse: è già domani. E poi le fece fare un altro giro e disse: è già dopodomani. E poi tornò indietro, e la pendola ubbidiente batté tutte le ore in ordine decrescente».

Infine la vedova brucia le memorie del marito, forse spinta dal rancore per un amore non del tutto ricambiato o tradito o da una gelosia più profonda nei confronti dell’arte della scrittura, esclusivo interesse dell’uomo. In tal caso la donna sembra quindi compiere una scelta, quella di distruggere il diario, ma non si tratta di uno scacco matto al destino: il pianto immediato e dirotto («Sentì che le lacrime le riempivano gli occhi, e lasciò che le scorressero sul viso, abbondanti, inarrestabili»), infatti, la lascia nella sua condizione iniziale di «vecchia donna ferita dalla morte» in un’atmosfera sospesa, senza tempo, e dall’odore nauseante di fiori.

Anche il protagonista del settimo racconto, Il rancore e le nuvole, prende una decisione: andarsene di casa, lasciando la moglie e la figlia per laurearsi e lottare per un posto di prestigio presso l’Università. È un uomo di bassa estrazione sociale che si è fatto da sé, un impiegato delle Poste che prova un forte astio verso la vita e verso tutti, verso Cecilia, la moglie trentenne apatica dallo sguardo rassegnato e con la sconfitta disegnata in volto, verso i giovani studenti universitari, i signorini di sinistra «che arrivavano a lezione freschi e disinvolti, con i pantaloni ben stirati e il pullover all’ultima moda». Poi le vittorie: la tesi con il prof. Nostalgico, l’assistentato, opere, riviste, congressi, l’appartamento in centro, la biblioteca, lo studio, il ritratto autografato di Machado, le traduzioni del poeta spagnolo. Questa tagliente rivincita, questa continua rincorsa del successo, si trasforma però in una radicale perdita di compassione e di empatia verso gli altri: il rancore, «un modo come un altro per non essere divorato in questo mondo di lupi», diventa il ritmo vitale del meschino e cinico protagonista, che, leggendo Machado, in un delirio di onnipotenza, si persuade che come critico e traduttore ha superato il poeta stesso.

Nelle ultime righe compaiono le nuvole: Il rancore e le nuvole. Per una lettura ritmica di una poesia del Novecento è infatti il titolo di un suo intervento. Le nuvole, fluttuanti nel cielo, potrebbero simboleggiare sia le persone che scivolano via nella vita di quest’uomo, sia i suoi sogni di gloria, le sue alte ambizioni. E in quest’ottica il protagonista sarebbe un po’ come L’étranger (1942) di Camus e soprattutto come l’extraordinaire étranger dei Petits poèmes en prose (1869) di Baudelaire che non ha gli stessi punti di riferimento degli altri uomini: senza famiglia, senza amici, senza patria, ama le nuvole, «les nuages qui passent là-bas… là-bas… les merveuilleux nuages».

Ai Petits poèmes en prose rimanda chiaramente il precedente racconto, intitolato appunto Anywhere out of the world.  Si tratta di una storia di morte e di mistero e di una fuga dalla vita, dalla realtà. Come il malato del noto poemetto baudelairiano ha solo l’illusione di trovare sollievo cambiando letto, così il protagonista ha la sensazione di sentirsi meglio, di provare «una libertà bella e superflua», andando a Lisbona, ma il ricordo dell’amata Isabelle e la sua colpa continuano a perseguitarlo. Sfogliando distrattamente un giornale trova, per serendipità, tra gli annunci personali la frase “Anywhere out of the world”: «è un’orribile coincidenza […] è solo un caso, un piccolo caso tra i miliardi di casi che ci sono a questo mondo, una cosa che sta succedendo […] Non è possibile, è una frase dislocata, un piombo non fuso rimasto in tipografia, sepolto sotto altre tavolette di piombo, che un tipografo distratto ha tirato fuori per errore e ha stampato fra gli annunci […] per errore ho comprato un giornale di quattro anni fa […] mi sono perso fra i milioni di volti del mondo, non può essere un messaggio per me, è solo una frase che tanta gente conosce, un altro lettore di Baudelaire che comunica in questo modo segreto un segreto a qualcun altro.[…] Non è possibile, è solo una coincidenza del destino».

Attraverso un flashback scopriamo che l’uomo aveva un’amante sposata, Isabelle, che voleva fuggire con lui ma lui era fuggito da solo lasciando detto che un giorno su un giornale avrebbe scritto quella frase e allora si sarebbero ritrovati; è lui però a leggere la citazione. Compone così il numero di telefono «morto» convinto che non corrisponda a niente, che siano «cifre che lanciano un segnale acustico verso nessuno» ma sente squillare, la cornetta si solleva, dall’altra parte nessuna voce, neppure un respiro, solo «la densità distinguibile di una presenza che in silenzio ascolta il silenzio della sua presenza».

Piccoli equivoci senza importanza: brevi bozzetti postmoderni che giocano sulla sovrapposizione di piani narrativi diversi, creando un primo momento di smarrimento nel lettore ‒ anche per la tendenza a non introdurre graficamente le battute del discorso diretto ‒ per poi chiarirsi e coinvolgere nel corso del testo. Ad esempio l’ultimo racconto, Cinema, si apre con un dialogo alla stazione fra una ragazza e un partigiano, interrotto solo dopo alcune pagine, e senza stacchi narrativi, da uno «“Stop!”, gridò il ciak», che riporta tutta la sequenza ad una scena di un film. Postmoderna è anche la fitta rete di rimandi intertestuali, da Machado a Baudelaire, da Chamisso – cui allude il falso nome del passeggero in I treni che vanno a Madras, Peter Schlemihl, appunto – al Marchese di Carabas del Gatto con gli stivali, personaggio di Rebus.

Postmoderna è infine la tecnica della narrazione visualizzata, cifra connotativa a livello strutturale e stilistico della scrittura di Antonio Tabucchi, che cita attori, registi, film, soprattutto alludendo al cinema hollywoodiano degli anni ’40 e ’50. Il protagonista di Anywhere out of the world, ad esempio, programma così di andare al cinema: «Il cinema. Perché no, domani è il tuo giorno libero, puoi permetterti di far tardi. Anche lo spettacolo di mezzanotte […] c’è un festival John Ford, una delizia, puoi rivedere The Horse Soldiers, un po’ noioso, Rio Grande, A Yellow Ribbon. L’alternativa è la retrospettiva francese, e poi le complicazioni della Duras, scartato. Da qualche parte danno Casablanca, cinema Alpha, mai sentito nominare, dev’essere in capo al mondo, strada sconosciuta. Però cosa avrà fatto Ingrid Bergman quando arriva a Lisbona e sullo schermo appare The End?».

I richiami al cinema si configurano non solo come rimandi intertestuali ma anche come integratori visivi del testo: accostando i personaggi ai nomi di attori o di protagonisti di film, Antonio Tabucchi attiva nella mente del lettore un collegamento parola-immagine che ne sintetizza le caratteristiche fisiche, come in Cinema («Uh, ragazze, c’è un Rodolfo Valentino»), gli atteggiamenti e le ambientazioni, come in Rebus («era un omino minuto che il bancone del bar aveva reso malinconico e rideva solo quando aveva bevuto un bicchiere di più, allora spillava la birra d’Alsazia e ti lanciava il boccale sul banco come nei film dei cow-boys dicendo: la vitesse! […] Ci fermammo in un piccolo albergo vicino al fiume, non ricordo che fiume passa per Limoges, una stanza con una tappezzeria vecchia e mobili ordinari, in quegli anni molti alberghi erano così, del resto basta vedere i film con Jena Gabin»). Piccoli equivoci senza importanza fornisce poi un esempio di utilizzo letterario della tecnica cinematografica della concisione e del montaggio, in particolare con Cinema, dove Antonio Tabucchi mostra la sua consapevolezza metalinguistica nella maestria con cui adotta il procedimento della mise en abyme.

Finzione cinematografica e vita reale si intrecciano: il cinema agisce nella vita dei protagonisti, Elsa e Eddie, il cui amore cinematografico sfocia in un amore reale che non trova però modo di realizzarsi («La recita dentro la recita, con noi che stiamo lì a recitare noi stessi […] abbiamo praticamente fatto una caricatura di noi stessi»).  Il remake, quel «facciamo girare la pellicola al contrario, ritorniamo al principio», è tema di riflessione non solo intorno alla creazione filmica ma anche sul desiderio di poter creare un remake della propria vita: la reversibilità della scena filmica rende evidente per contrasto quella della vita reale. Elsa e Eddie potranno continuare a vivere la loro storia d’amore solo rimanendo nel mondo della finzione cinematografica, rivedendosi “in un altro film”. Antonio Tabucchi Antonio Tabucchi Antonio Tabucchi 

Rossella Farnese

(www.excursus.org, anno IX, n. 84, luglio 2017) Antonio Tabucchi