La porta dei morti – Sibyl Von Der Schulenburg

di SILVIA GRAZIA – Due parole. E sappiamo con certezza dove ci troviamo. La tipica “imprecazione” di apertura non lascia adito a dubbi. Ci sbalza all’improvviso dalle nostre comode sedie e ci catapulta nella Toscana più verace, in un vecchio casolare, disperso nelle dolci colline della Maremma.

Ma l’incanto del paesaggio svanisce in un istante, bruscamente interrotto dalla sporcizia e dai rifiuti che regnano incontrastati nel fatiscente complesso agricolo e dall’odore poco piacevole che, troppo insistentemente, emana dalle pagine del romanzo La porta dei morti di Sibyl Von Der Schulenburg (Edizioni Il Prato, pp. 192, € 10,00).

Nel casolare vive, in compagnia di una miriade di cani e gatti, un’anziana signora, inacidita dalla vita, dimenticata da Dio e dagli uomini e soprattutto dai parenti, che si ricordano della sua esistenza solo nel momento del “loro” bisogno. Una lettera, giunta all’improvviso dalla Svizzera e recapitata dal postino del paese, spezza la solitudine della vecchia che, con neanche troppo malcelata cinica sorpresa, si trova ad esclamare: «C’è ancora qualcuno…». Qualcuno dei suoi familiari… dall’altra parte delle Alpi, nel suo paese d’origine.

La missiva preannuncia l’inaspettato irrompere di nuora e nipote nel “ritiro” dell’anziana, scopriremo poi, ex-scrittrice. Gli algidi convenevoli, dopo anni di lontananza, ben restituiscono l’idea del completo azzeramento di rapporti umani. Alla battuta della nuora – «a casa credono che tu sia morta, non hai telefono…» – fa eco, in un climax ascendente di freddezza, la risposta della suocera: «E perché non mi dai per morta anche tu?» (p. 11).

Il successivo soggiorno obbligato della nipote, “parcheggiata” temporaneamente presso le poco amorevoli cure della nonna, consentirà di slatentizzare un groviglio di problemi apparentemente inestricabile, accelerandone e rendendone possibile la soluzione. La sensibilità, la fragilità, la freschezza di una giovane vita appena affacciata sul mondo, costituiranno la dirompente forza che scioglierà il ghiaccio di un cinismo che altro non è che l’amaro frutto di ferite ben sepolte nelle profondità dell’animo.

È così che, attraverso la Porta dei Morti, un’angusta fessura affiancata e sopraelevata rispetto alla porta di ingresso dei vivi, presente in quasi tutte le abitazioni di Verdalmasso e dintorni, non transiteranno più solo i defunti al termine della loro esistenza in un definitivo addio alla propria abitazione terrena, ma verranno fatti uscire i lutti rielaborati una volta per tutte.

E l’indagine intorno a una vecchia tradizione etrusca, mescolata a superstizione (il cammino dei morti e il cammino dei vivi devono rimanere distinti, in un sacro e inviolabile vicendevole rispetto, pena il rientro della morte in casa e il decesso dei vivi, prima del tramontar del sole) diventa un pretesto per una spietata analisi della contrazione dei rapporti umani ai minimi termini, delle relazioni che, quanto più sono casuali, tanto più sono autentiche e tanto più dovrebbero essere vicine, tanto più sono distanti. Dell’amore riversato sugli animali, «meravigliose scatole piene di energia» (p. 107), che può diventare talmente cieco ed egoistico da sfociare nella patologia del “collezionismo”.

Dell’incontro transgenerazionale che contrappone una vita disincantata al termine dei propri giorni all’incanto di una vita all’esordio e che contiene in nuce il germe della salvezza. Per l’ex-scrittrice che, lasciate libere dalla “prigionia” orde di cani e gatti, «i miei pensieri» (p. 102), accalcati in condizioni igieniche disastrose, ritroverà il contatto con se stessa e la capacità di scrivere. Per la nipote, che supererà un trauma infantile. Per l’intero paese di Verdalmasso, che verrà liberato dal fetore e dalle superstizioni, proprio attraverso di esse.

Libro crudo, ben scritto, sicuramente catartico, con un finale aperto alle più svariate interpretazioni. Attraverso un cammino tortuoso, spalanca la porta (dei vivi!) alla speranza: «Non possiamo modificare il passato, però possiamo dargli un senso, e metterlo a fondamento del nostro presente» (p. 135).

Silvia Grazia

(www.excursus.org, anno VII, n. 70, maggio 2015)