8 anni, 4 mesi, 21 giorni – Roberto Sfingi

di LAURA MESA – «Temo il giudizio, temo di non essere ciò che si aspettano […]. Da quando ho memoria, ho sempre vissuto l’esterno come un vestito nel quale non mi sentivo a mio agio, a volte stretto, a volte largo, mai cucito addosso […]. E sono rimasto a guardare il mondo dalla finestra della mia cucina, chiudendo a poco a poco ogni spiraglio di possibilità tra me e una vita normale».

8 anni, 4 mesi, 21 giorni (A.Car Edizioni, pp. 504, € 19,50) di Roberto Sfingi è la storia di Santo, un uomo di quarant’anni che viene considerato da tutti diverso, soprattutto dai suoi condomini e vicini, i quali ritengono le sue abitudini sbagliate, immorali e “malate”.

Per questo motivo viene strappato dal suo appartamento e portato in un istituto psichiatrico, chiamato Vecchio Ospedale, quasi a volerne celare la vera identità, poiché è in realtà denominato da tutti “manicomio”. Un termine dispregiativo azzardato visto che nessuno, a parte pazienti e personale, sa realmente cosa accade all’interno di questa struttura.

La diversità e la solitudine provata da Santo non devono però essere considerate né una colpa, né una malattia. Sono solo qualcosa da cui lo stesso protagonista deve riuscire a trarre gli aspetti positivi, ai quali aggrapparsi per ricominciare una nuova vita, imparando a lasciare da parte le proprie insicurezze e i propri timori. Con un po’ di aiuto, comprenderà che essere schivi, ritrosi e negativi non può portare a nulla, ma che essere soli può divenire un punto di partenza per riflettere e osservare attentamente ciò che lo circonda, per rivivere poi la propria esistenza in un’ottica meno miope.

Ormai da quasi nove anni, l’Istituto è divenuto la casa di Santo. Un rifugio, una terraferma, un luogo nel quale isolarsi, per lo meno dal mondo esterno. Sì, perché il protagonista stringerà alcune amicizie all’interno delle mura del Vecchio Ospedale, che lo porteranno piano piano verso nuove relazioni ed esperienze.

La prima persona con cui instaura un particolare rapporto è Fabietto, un ex ladro; è un ragazzo con tendenze al furto e molto meticoloso, con il quale condivide la stanza, le lunghe notti e diverse animate discussioni. Poi c’è Vincenzo, sempre seduto in silenzio su quella panchina del grande giardino dell’Istituto, un uomo che con freddezza osserva la realtà che gli si presenta davanti agli occhi e il luogo in cui è stato rinchiuso per aver assassinato la moglie.

Uno spiraglio d’aria nuova sembra arrivare con il direttore Filippo De Benci, ma soprattutto con Viviana, una donna dalla grande capacità di ascolto e di consiglio, che volontariamente si è proposta di lavorare come assistente sociale all’Istituto per aiutare i pazienti ad esprimersi, a dialogare, a confidarsi e, allo stesso tempo, per riportare informazioni importanti ai loro medici.

Viviana comprende perfettamente la singolarità del caso di Santo. Capisce che l’immobilità della vita nell’Istituto l’ha protetto dalla gente che lo reputava strano e, in un certo senso, lo ha aiutato, permettendogli di attendere il cambiamento. Ora però era venuto il momento di indicargli una direzione, ampliando i suoi orizzonti e le sue possibilità al di fuori di quelle mura. La noia può diventare pericolosa, può provocare assuefazione, e Santo poteva restare intimorito dal pensiero di non poter più comprendere il mondo al di fuori dell’Istituto.

Tuttavia, un’incredibile opportunità gli permetterà di vedere il Vecchio Ospedale e chi lo abita con occhi diversi, con uno spirito e un’energia nuova. Viviana lo aiuterà a riallacciare i legami col presente, a mettere in moto un’immobilità che durava ormai da tempo e a raggiungere varie tappe di un percorso: quello che Santo, da quasi nove anni, annotava prontamente sul proprio diario.

Per un periodo, Viviana viene assunta come supplente in una scuola e questo le permette di arrotondare le sue entrate, ma soprattutto di conoscere due adolescenti molto diversi tra loro: Adriana e Marco. Con piccoli gesti e ingenua curiosità, i due ragazzi riusciranno a riaprire nel protagonista uno spiraglio verso la vita considerata “normale”. Senza alcun pregiudizio, Viviana, Filippo, Adriana, Marco e i loro genitori vogliono provare a ridare a Santo un’esistenza fatta di gente chiassosa, dove il tempo scorre e le cose sono sempre in movimento. Vogliono che i pazienti dell’Istituto vengano visti non come dei matti pericolosi, ma come persone da aiutare, per le quali dovrebbe essere previsto un programma di reinserimento in società, destinato alle più meritevoli.

In un modo o in un altro, questi personaggi riusciranno a distaccare Santo dagli avvolgenti tentacoli di una letale monotonia, quella che il Vecchio Ospedale regala ogni giorno con i suoi ritmi lenti e ben scanditi. Dopo un lungo percorso, egli si disintossicherà dalla noia e dall’atemporalità, perdendo lentamente la sua dipendenza dall’Istituto. Il cambiamento tanto atteso lo porterà a una nuova consapevolezza, quella secondo cui «essere mossi dal vento non è poi tanto male, se si sa in che direzione si sta andando».

Roberto Sfingi, in questo suo primo romanzo, descrive una realtà poco conosciuta con un racconto semplice e al contempo ricco di spunti di riflessione. 8 anni, 4 mesi, 21 giorni è un libro in cui l’autore ci trasporta nella vita di un uomo che ha capito come osservare il mondo e, grazie a questo, ha acquisito una sensibilità particolare che gli ha permesso di ricominciare.

Laura Mesa

(www.excursus.org, anno VII, n. 68, marzo 2015)