Il procuratore di Giudea – Anatole France

di GAETANINA SICARI RUFFO – È un incontro tra due amici che si ritrovano in vecchiaia, ormai in pensione, in quel di Baia, la superba costa partenopea, dopo tanto tempo, a rispolverare i loro ricordi. Uno  è Elio Lamia che è andato a frequentare i Campi Flegrei per curarsi della gotta; l’altro, Ponzio Pilato, il procuratore di Gerusalemme, anch’egli in pensione, che abitualmente soggiorna in Sicilia, accanto alla figlia Ponzia che l’assiste. Anatole France

I due non si vedevano da trent’anni ed ora non basta il tempo per raccontarsi l’accaduto. Decidono di rivedersi a cena la sera successiva per avere tutto il tempo possibile per ricordare insieme i trascorsi. E così succede. Specie Ponzio Pilato non finisce mai di lamentarsi della sua cattiva sorte, dovuta all’insensibilità degli imperatori come Vitellio, ma soprattutto alla squallida condotta degli Ebrei che gli è toccato governare: litigiosi, ignoranti, inquieti, sprezzanti.

«Si dilaniano tra di loro persino per l’interpretazione della stessa legge… disconoscono la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni… covando la rivolta nei loro animi accesi. Un giorno o l’altro faranno esplodere contro di noi un tale furore di fronte al quale la collera dei numidi e le minacce dei parti parranno come capricci di bambini».

Il dialogo è un capolavoro di bravura nella presentazione del mondo romano che evoca tutte le sue bellezze ed anche i difetti. Ma pian piano tra i dubbi di Ponzio Pilato che si dice infelicissimo per il modo come è stato costretto a vivere, dannandosi l’anima, indirettamente si fa strada una certezza, pur tra le lusinghe di Lamia che lo incita a tranquillizzarsi e ad ignorare l’odio ostile. Egli non sa cosa sia la verità, meno che mai la realtà. Quel Pilato che la tradizione ebraica ci presenta come colui che si lava le mani, rituale estraneo alla cultura romana sia religiosa che politica, lo scrittore Anatole France, in Il procuratore di Giudea (traduzione di Silvano Petrosino, Edizioni Dehoniane, pp. 64, € 7,00), lo presenta come uno smemorato.

Infatti ad una precisa domanda di Lamia se ricorda di aver conosciuto un certo profeta Gesù, egli risponde di no. Non è entrato nella sua vita e lo ha cancellato. Mentre di solito nella letteratura che si è venuta a creare su Pilato egli è colpevole d’aver condannato un innocente con indifferenza,senza sondare veramente il suo essere e la sua condotta. Qui la sua colpa è ben altra perché non solo non accetta la verità cui Cristo si è riferito, ma dimostra di non possedere coscienza dei suoi atti e non solo si chiede cosa sia la divinità, ma non si pone neanche il problema dal punto di vista umano. Il tema è di grande attualità.

Nel recente Ponzio Pilato (Einaudi), Aldo Schiavone esamina la questione sotto tutti i punti di vista, rivedendo i termini esatti dell’interrogatorio nel Sinedrio e conclude che Hanna e Caifa si rivolgono a Pilato perchè egli, in veste di procuratore dell’autorità romana, lo condanni per attentato al potere imperiale, cioé a Tiberio, di cui Cristo avrebbe ignorato i diritti, proclamandosi Re. Ma si possono comparare Dio e l’imperatore? Soprattutto si può rispondere con la violenza quando si è a corto di ragionamenti sensati?

Non c’è una risposta di fronte a questi interrogativi da duemila anni a questa parte. Sia lo storico sia il letterato si arrendono anziché accumulare ipotesi su ipotesi. Il primo, dopo aver analizzato parola per parola l’nterrogatorio ed essersi accorto che il condannato rischia di passare da accusato accusatore, evocando un potere divino dall’alto di una verità che l’altro non comprende, parla di due parallele che non s’incontrano sullo stesso piano temporale e, senza assolvere Pilato, ritiene che forse la sua condanna è scaturita dal timore di una sommossa popolare dalle imprevedibili conseguenze.

L’altro, Anatole France, forte delle contraddizioni latenti in quell’incontro di cui tutti sanno, preferisce ignorarlo,mentre quasi indirettamente, con ironia l’interlocutore Lamia confessa di non avere dimenticato la danzatrice ebrea «ardente,languida, flessuosa che avrebbe fatto morire d’invidia la stessa Cleopatra, tanto desiderata», scomparsa da quando frequentava i discepoli del taumaturgo. Prevale nel colloquio tra i due amici non la rivelazione eccezionale d’un Dio e la forza del suo sacrificio, ma l’ammiccamento all’amore terreno come unica gratificazione desiderata dell’uomo. Presenza ed assenza del divino escludono dalla scena la coscienza umana errabonda e sviata.

Gaetanina Sicari Ruffo Anatole France

(www.excursus.org, anno X, n. 90, novembre-dicembre 2018) Anatole France

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