Maestro Utrecht – Davide Longo

LongoMaestroUtrechtdi MARCO MENON – Forse è un’esagerazione, ma non per questo una suggestione del tutto fuorviante, pensare che il protagonista del libro di Davide Longo, Maestro Utrecht (NN Editore, pp. 156, € 13,00), non sia tanto l’uomo (o il fantasma?) nominato nel titolo, quanto l’Autore stesso. Bastano pochi elementi per ricostruire l’ossatura della vicenda: nell’estate del 2010 Longo si trova in Olanda, ospite del programma per scrittori City Books, con il compito di stendere un testo sulla città di Utrecht e sul trattato del 1713. In queste circostanze viene a conoscenza di un fatto di cronaca locale: nel 2008 viene ritrovato, sotto un viadotto dell’autostrada, il corpo senza vita di un italiano, Stefano M***, di cui non si sa pressoché nulla. Ai funerali, quasi a sigillare simbolicamente il carattere enigmatico di questa esistenza spezzata, prendono parte solo due membri dell’associazione “Lonely Funeral”, un gruppo di poeti che, leggendo dei versi originali, si offre di presenziare alle esequie di chi altrimenti se ne sarebbe andato per sempre in perfetta solitudine.

Maestro Utrecht, almeno a prima vista, assomiglia ad una sorta di diario, ricco di aperture meditative, che racconta l’incontro di uno scrittore con l’estraneo che diventa il personaggio di una sua storia. Diviso simmetricamente in diciotto capitoli, dove quelli dispari raccontano cronologicamente la parabola di Maestro Utrecht, e i pari il soggiorno e le fatiche dell’Autore, il libro intreccia delicatamente il dato e l’invenzione, l’immaginazione e la cronaca, lasciando al lettore il dubbio che in fondo di reale non vi sia che un lacero brandello – che Longo non voglia, maestro a sua volta, prenderci per mano e introdurci, con discrezione, all’arte della scrittura e alla sapienza alchemica che la guida?

Probabilmente soffermarsi analiticamente sui personaggi che popolano le pagine di Maestro Utrecht – delineati con brevi, efficaci pennellate che li rendono imperfetti e proprio per questo così veri, così vivi – è un esercizio che rischia di far perdere la presa su quanto, a nostro avviso, rappresenta il vero cuore dell’opera. Certo, è difficile resistere al fascino umano della triste scomparsa di Stefano M***, alla matura sincerità dello stesso Longo che a tratti regala pagine amaramente autobiografiche, il cui tono minore colpisce per pulizia di esecuzione e perfetta estraneità al patetismo. Altrettanto presuntuoso sarebbe il voler sorvolare sulla figura del Maestro e sul suo peregrinare seguendo una traiettoria che, apparentemente retta da un’assurda precarietà, lo trasfigura progressivamente in un fantasma che molto racconta di quanto ognuno di noi perda nell’assillo quotidiano della ricerca della regolarità, della solidità, dell’equilibrio.

Ma proprio perché la nostra persuasione è che l’Autore voglia dire altro, raccontandoci una storia, non diversamente da come Maestro Utrecht guida lo sguardo dei bambini verso ciò che resta troppo presto relegato al registro dei mondi smarriti – il legame con la natura, con la regolarità non artificiale e appiattente delle piante, dei fenomeni meteorologici, con il dolce ma fermo ritmo delle parole messe in rima – ci permettiamo di raccogliere, senza alcuna pretesa di analitica completezza, dei marginalia che possano restituire, per quanto impacciati, qualcosa del non detto che Longo affida alle dinamiche performative del suo libro.

Anzitutto Maestro Utrecht mostra ad oculos il germogliare di una storia a partire da un mero dato. Non è cinismo, ma rassegnato senso di realtà se rubrichiamo la morte come necessità naturale e destino ineluttabile di ciascuno di noi. Ma la scomparsa di Stefano M*** è, agli occhi dell’Autore, degna di essere raccontata. Perlomeno per il fatto che Stefano se n’è andato da solo, accompagnato da versi composti e recitati da sconosciuti. Quindi senza che di lui si salvi una memoria che, per noi mortali, rappresenta l’unica forma di sopravvivenza all’estinzione fisica. Ma non è lo stesso Longo un estraneo che scrive una poesia in commiato ad un uomo morto in solitudine? Non si aggiunge l’Autore, seppur tardivo, al gruppo dei poeti olandesi della “Lonely Funeral”? Probabilmente, come già suggerito, non è questo il punto. Non è tanto la vicenda in sé, quanto la narrazione della narrazione a doverci interessare. Maestro Utrecht va letto come un ottimo esempio di metascrittura. Potremmo infatti approfittare di Longo e ricorrere alla sua metafora della formica tagliafoglie per illustrare efficacemente che cosa faccia lo scrittore, ovvero come la storia nasca da sé, per reazione chimica nella torbiera dove fermentano quei fatti che sono le parole: «Uno scrittore non si ciba di vita propria o altrui, ma ne ritaglia porzioni, le trascina nella tana e aspetta che su quei brandelli in decomposizione, grazie al luogo caldo, chiuso e poco areato, nascano le storie. Ne deriva che le storie non sono vita, ma qualcosa che cresce sopra la vita, nelle tane di determinati individui».

Longo ci offre un esempio emblematico del processo con cui la scrittura riesce a intercettare le storie che concrescono ai margini di ritagli di vita, ricreando un tessuto organico a partire da scarti o abbandoni altrimenti destinati alla folla chiassosa del superfluo. Lo fa cesellando un testo dalle sfumature a volte intimiste, senza mai essere accorato; colto, senza essere erudito; descrittivo, senza essere invadente. Forse anche l’arte della scrittura di Longo risponde all’imperativo che lo guida, come faro etico, nella sua condotta di vita: «per quanto tu soffra, non lagnarti, non frignare e non dare disturbo al prossimo con i tuoi dolori». La prosa gentile e sobria del dettato di Maestro Utrecht rispecchia questa ferma volontà di raccontare la filamentazione del narrato, giocando con frammenti di realtà che attraversano, come brune striature, il corpo di un marmo pregiato, sedimentatosi e cristallizzatosi lentamente, in silenzio.

In secondo luogo, il libro è, appunto, la creativa rammemorazione di un uomo scomparso. Il ritrovamento dei resti di Stefano M*** è la traccia di un’ombra ormai evanescente che, nella tana di Davide Longo, diventa, pagina dopo pagina, Maestro Utrecht. Ma, come ci spiega l’Autore, Maestro Utrecht narra di una vita ma non è vita. E infatti quella del Maestro è la storia spiazzante di una sorta di nomade dell’esistenza, naïf ma sapiente, anarchico ma equilibrato, capace di alternare fanciullesca levità a silenzi e profonde assenze, ribelle gentile ad ogni tentativo di comprensione e appiattimento, seguito nei suoi spostamenti di città in città (dal nord Italia fino all’Olanda), dove sfiora come una brezza inaspettata le vite altrui, segnandole indelebilmente.

La risposta alla domanda sulla reale identità di Maestro Utrecht – non tanto il mero dettaglio anagrafico, se volessimo ancora indugiare nel realismo cronachistico – può essere suggerita da un’annotazione, quasi distratta ma rivelatrice, che Longo affida a Nora, compagna di una delle identità del Maestro (“Sergio”, per come le si presentò). Nel secondo movimento, quello centrale, del tredicesimo capitolo, ci viene detto che, in fondo, «in questo mondo non funziona così». Ovvero che nel nostro mondo il Maestro è un’impossibile novità, un’increspatura lieta e disturbante allo stesso tempo. Impossibile vivere cavalcando la sincronicità senza venire disarcionati, mantenersi distaccati dal denaro senza andare in rovina, sospendere ogni regola senza indugiare nella trasgressione. Forse Maestro Utrecht è, allora, la materializzazione di un innato anelito all’abbandonarsi alla vita, al lasciar che le cose vengano da sé, a lasciarsi attraversare dal mondo. Senza poter evitare, alla fine, di naufragare.

Marco Menon

(www.excursus.org, anno VIII, n. 74, luglio-agosto 2016)