Le nausee di Darwin – Giordano Boscolo

di EMILIANO CAVALIERE – Le nausee di Darwin (autodafé edizioni, pp. 156, € 15,00), di Giordano Boscolo (al suo esordio narrativo), è un libro che lascia spiazzati, proprio come il suo protagonista, Luca Visentin, è di continuo spiazzato dalla sua vita. Il romanzo, in prima persona, ci proietta subito nel mezzo della vicenda, per poi tornare a spiegare, gradualmente, le premesse che hanno condotto ad essa.

Luca Visentin è, infatti, un laureato in Biologia, ma lavora in notturna sui pescherecci chioggiotti: il racconto non è altro che, in ultima considerazione, la ricerca di un senso da dare a questa curiosa situazione di partenza. «Ho realmente vissuto parte delle vicende raccontate nel romanzo: dopo la laurea, partecipai ad un progetto scientifico per mappare la presenza delle tartarughe nell’Adriatico».

«Fu un’esperienza strana: mi sembrava di non essere al mio posto sui pescherecci; come un pesce fuor d’acqua. Inizialmente, è stato per ricordare quegli avvenimenti che ho tentato di scrivere qualcosa; poi, sviluppando con l’invenzione quello che è il più banale incominciamento di un’azione comica (un personaggio posizionato in un ambiente che non conosce e capisce, appunto), è nato Le nausee di Darwin».

L’attualità è solo la base da cui trae spunto il romanzo: elaborando le situazioni attraverso il motore dell’ironia (che spesso, nei momenti più seri, sconfina nell’umorismo), il racconto di Luca Visentin prende forma, uno stravolgimento dopo l’altro, in un continuo dialogo tra presente e passato. Come si è accennato sopra, infatti, la storia procede con un ritmo rallentato, dato dall’alternanza di capitoli che narranoil presente di una giornata lavorativa (quelli pari) e di capitoli narranti eventi del passato (quelli dispari), atti a spiegare o inquadrare il piano attuale.

Si coglie qui un’importanza, anche formale, conferita al tema del tempo: «Il tempo nei pescherecci, durante le traversate di quindici ore, è un demone agonizzante che non muore mai, ti si avvinghia sulla schiena come una scimmia sadica per affondarti le unghie sul collo e sussurrarti all’orecchio i suoi lamenti incomprensibili. I minuti, dilatati, si incarnano, perdono la loro natura astratta, diventano una presenza quasi fisica, si arroccano nel cervello gonfiandosi come spugne bagnate dai tuoi umori, tiranneggiano il pensiero occupando ogni spazio disponibile. […] È come il tempo delle sale d’aspetto nelle piccole stazioni di provincia, quando il treno non arriva mai e non c’è nessun passeggero con cui chiacchierare; il tempo delle code in autostrada, della mamma che ritarda più del solito e tu hai solo cinque anni, del telefono che non squilla anche se Lei ha promesso di chiamarti. È il tempo un minuto prima di essere impiccati. il tempo dei manicomi. Solo i filosofi possono prendersi il lusso di dire che il tempo non esiste. […] Sarà magari inafferrabile per noi, ma lui ci afferra. Eccome!», sostiene il protagonista (pp. 42-43).

Si comprende meglio, alla luce di queste affermazioni, il perché di un ritmo in capitoli così rallentato, che tenta di riprodurre il tempo fisico e densificato, infinito ed asfittico del peschereccio: non a caso, tutti i titoli dei capitoli pari riportano un’indicazione oraria progressiva del turno lavorativo, fino alla perdita della cognizione del tempo («Che ora è?», nel penultimo capitolo).

Un altro elemento è da segnalare, per quanto riguarda la suddivisione in capitoli, ad uso e consumo degli amanti del palcoscenico. Le singole e brevi parti della storia sono, infatti, episodi autonomi, pur essendo intessute per dar forma alla trama: ciò conferisce a molte di loro una dinamicità quasi teatrale, che le rende veri e propri sketch serio-comici o monologhi a tema.

Ma dunque cosa combina Luca Visentin sui pescherecci di Chioggia? Come Giordano Boscolo, egli è assunto temporaneamente in qualità di ricercatore: il suo compito è segnalare la presenza di tartarughe impigliate nelle reti dei pescatori, e pertanto deve condividerne la vita spartana per alcuni mesi. La paga è bassa e procrastinata nel tempo; ciononostante, non ha altra occupazione su cui ripiegare, o, quanto meno, non una che gli garantisca un impegno full-time nel suo campo di studio. Il lavoro è difficile e porta ad uno stravolgimento dei ritmi vitali di Luca: tutte le battute di pesca partono in notturna ed occupano larga parte della giornata, dunque non resta che il tempo di dormire, una volta di ritorno a casa.

Come se non bastasse, il rapporto con i pescatori risulta essere piuttosto complicato: quasi fossero appartenenti a due mondi differenti, il protagonista e gli uomini di mare si parlano in due lingue diverse, il dialetto locale (costruito sulla base del veneziano di Goldoni e di quello attuale) e l’italiano, ancora capaci però di una qualche comprensione reciproca; inoltre, le differenti mansioni da svolgere fanno sì che all’interno dell’equipaggio si formi fin da subito una sorta di frattura tra i pescatori – uomini duri, nati e cresciuti sulla costa, che si guadagnano il pane col sudore della fronte e lavorano “come una volta” – e “el dotore” – giovane uomo di città, istruito e studioso, che per guadagnarsi la paga deve solo scribacchiare alcuni dati ad ogni cala delle reti. L’equipaggio, dunque, non riconosce Luca come un uomo vero e non comprende il senso di ciò che fa; quest’ultimo, da parte sua, riesce a intenderlo ancor meno. Ne consegue un’ovvia domanda, per chi legge: qual è, di questi tempi, il senso di una laurea, se chi l’ottiene difficilmente poi trova lavoro, e se lo trova non vi si riconosce? Di più: qual è il posto di Luca nel mondo?

Durante tutto il romanzo, Luca si porta dietro una scia di sfortune (per lo più comiche) di fantozziana memoria, che gli fa vivere le più impensabili peripezie; nel momento in cui le cose si fanno più serie, però, ancora egli non riesce a scrollarsela di dosso, ed anzi ne rimane intrappolato. È quasi come se essa si unisse al tempo pesante e tremendo del mare, vi si mischiasse, per poi dar vita all’atmosfera cupa in cui Luca si cala ogni giorno: l’atmosfera di un mondo che non riconosce suo, ovvero quello del lavoro e, in fin dei conti, quello della società in cui vive.

Le nausee di Darwin di Giordano Boscolo è un libro che fa sorridere, amaramente, di se stessi, e al contempo riflettere: scritto in una lingua semplice, immediata, riesce comunque a toccare e ritrarre una parte del nostro mondo, quella che raggiunge a volte l’assurdità e ci fa vivere una sensazione di impotenza ed esclusione pari a quella vissuta da Luca sui pescherecci nell’Adriatico. Non è senz’altro un libro per chi teme di guardarsi allo specchio! Giordano Boscolo

Emiliano Cavaliere

(www.excursus.org, anno VI, n. 63, ottobre 2014)

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