Ghiaccio nero – Giulio Marchetti

MarchettiGhiaccioNerodi MARTA ALTIERI – Continua la ricerca esistenziale di Giulio Marchetti nella sua nuova silloge Ghiaccio Nero (Giuliano Landolfi Editore, pp. 56, € 10,00). Che ci si trovi ancora in uno spazio astratto che mira alla sublimazione del tempo e delle azioni è cosa certa. Ciò che scopriamo leggendo questi versi è una nuova tonalità di colore e animo: il nero su un fondo bianco.

Se si dovesse scegliere la figura retorica che definisca quest’opera, quella sarebbe certamente l’ossimoro. Ghiaccio Nero è il senso di un’esperienza tramutata; dell’unione di due elementi, “visivamente” in opposizione, che si fondono; della fuliggine che macchia il bianco trasparente. La neve, che ha la capacità di “mettere in pausa” il mondo, è una speranza che a tratti incontriamo nel corso della lettura.

Le pagine di questa raccolta mostrano una concisa semplicità di espressione che non necessita di parole in eccesso, ma di emozioni contrastanti e intense che cercano di essere domate con il silenzio dell’introspezione, senza tuttavia rinunciare al dialogo con l’esterno, che si riconosce come nemico-amico. Ciò ricorda anche che la poesia non ha bisogno di un nutrimento fatto di parole e giochi strabilianti, ma soprattutto di sensazioni, incontenibili sensazioni, e visioni.

Una collezione di scenari incorporei che inizia sull’Orlo di quello che sembra un incontro, sulla liminalità di una fiamma quasi spenta. Si tratta di un incontro con se stessi e allo stesso tempo con l’altro, con l’amore forse, personificato in qualcuno che rimane un’ombra. L’inizio della raccolta apre solo la strada ad un viaggio che avanza sempre sulla soglia, sul bordo dell’abisso, sul «filo dell’attesa», sulla linea di demarcazione fra buio e luce. L’esplorazione di conoscenza del poeta appartiene alla conversazione con l’universo, al riconoscersi ed indagare nello specchio del creato.

Una presenza ricorrente è quella del legame con la scrittura, con il “foglio bianco”, che con la poesia si tinge di nero. Di conseguenza, la discrepanza fra respiro e parola diventa un ulteriore punto di indagine, ed è l’anima «nera» dell’io che parlando o emettendo aria permette di “sporcare” la pagina. Parlare con l’altro, con l’umano, diventa uno sforzo o un sacrificio e sembra che l’unico dialogo non fallace rimanga quello con l’esterno. Il respiro infatti «si fa vento».

«Cercandomi / Cercandoti / Meraviglioso fallimento» sono le tre “sezioni” della silloge sembrano descrivere un viaggio circolare, il cui punto di inizio/fine viene abbracciato globalmente nella piena accettazione dei propri sentimenti e, soprattutto, del destino. La ricerca dell’origine, del punto più nascosto di sé, di motivazioni profonde dentro e fuori, appartengono a un’anima senza filtri, esposta alle percezioni e a(da)tta a recuperare la più piccola scia d’emozione dispersa nel vento.

Nella seconda parte della silloge l’amore, tema apparentemente centrale, è “a pezzi”, descritto in brevi incontri di occhi, voci e respiri; e nell’attesa che passi o si verifichi qualcosa, si rischia di cadere. Alcune parole ricorrono come pietre miliari, a segnare che si procede, ma mai veramente.

Il buio è l’attrazione e la paura più costante, come nella vita tanto nell’amore, e si manifesta nella solitudine e nel ricordo del dolore subito, finché anche il sole diventa «inutile». Le uniche presenze “in movimento” sono rappresentate dal vento e da fiori coraggiosi, anche se soli e slegati dal verde di un prato. Nel vento si confida affinché possa ripulire la memoria e dare la spinta per volare; nei fiori si guarda il volto dell’amore.

In questo viaggio-immersione l’identità del poeta si disperde e non riesce a definire i suoi contorni, talmente incastrata nelle forme del mondo da lui e con lui stesso creato; i suoi respiri sono stati dati al vento e le «antiche ferite hanno configurato l’aspetto della volta stellata». Si brama l’aiuto dell’immateriale, che non arriva. Gli unici colori che compaiono sono il nero, il bianco, il grigio e l’«inchiostro rosso dalle vene». Siamo in un periodo di stallo, in cui la solitudine è compagna e Musa della poesia, e l’io lotta contro l’impossibile, in una primavera che non è tempo, ancora, che rinasca.

«Ho perso il mio cuore in una tempesta di cenere e ghiaccio».

Questa è la verità. L’io sembra arreso e, con «la pazienza di un cuore fermo», dopo aver traballato tra la speranza di cancellarsi e la brama di ricercare, sceglie i graffi alle «carezze agognate», graffi che possano portar via «intere regioni del cuore». L’anima si è annerita, l’ultima meta del volo è la terra, non l’infinito. L’ultimo scenario di questo viaggio è assuefatto, si vaga nel pozzo di un sogno vero o ad occhi aperti. Si chiude il sipario davanti alla malinconia di «giorni inutili», che non sembrano meritare di essere modulati dalla poesia, una voce che come «una goccia nel deserto non vuole morire», e non morirà nonostante la gravitazione nel buio abissale.

«Può una danza inscenare la vita?». Forse è questa la domanda fondamentale che nasce da una così totale immersione nel mondo poetico. La comunicazione con l’immenso, con l’intangibile forza dell’aria, quell’«energia del vuoto» già cantata, può imitare la vita, ingannando in tal modo il dolore? La vita vera che ci colpisce, punisce, ferisce, ma, fortunatamente, non solo.

Marta Altieri


(
www.excursus.org, anno VIII, n. 73, giugno 2016)