Una cosa divertente che non farò mai più – David F. Wallace

di JACOPO IANNACCI – Da lettore non particolarmente affamato di libri – quale sono e quale ammetto di essere – risulto fisiologicamente esposto ai sintomi tipici di chi non pratica in modo assiduo una certa disciplina; primi fra tutti la semplificazione, la catalogazione e la successiva etichettatura. Per questa ragione, ho sempre associato l’idea del saggio – inteso come scritto, e non come individuo provvido – a qualcosa di molto tecnico, scarsamente comprensibile, assimilabile a un testo universitario, avente in qualche modo a che fare (chissà perché) con la filosofia, e fondamentalmente noioso. Tuttavia, rispetto a chi pratica in modo assiduo una certa disciplina, la sorpresa è decisamente più grande quando ci si imbatte in qualcosa (o qualcuno) che, semplicemente in virtù di ciò che è e che rappresenta, manda in frantumi la scatola in cui si era riposta (non senza un po’ di superficialità) un’idea, un parere, una definizione.

Il concetto grigiastro e da pantofole in lana cotta, in cui avevo risposto il saggio, è stato completamente stravolto dopo la lettura dell’opera di David Foster Wallace, intitolata Una cosa divertente che non farò mai più (traduzione di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo, minimum fax, pp. 152, € 12,50). Nel 1995 a Wallace venne commissionata, da parte della rivista americana Harper’s, la scrittura di un articolo che avesse come tema le crociere di lusso. Per questa ragione, la redazione pagò allo scrittore un viaggio di sette giorni, tra la Florida e i Caraibi, a bordo della nave “MV Zenith”, a quel tempo di proprietà della Celebrity Crociere. Al suo ritorno, David redasse l’articolo che gli era stato chiesto. Tuttavia, l’esperienza a cui si sottopose «volontariamente e dietro compenso», lo traumatizzò così significativamente che decise di scrivere questo saggio.

L’opera è un resoconto della settimana di extra lusso, dal ritmo incalzante e serrato, ma soprattutto di una tale muscolarità nell’infarcitura di dettagli, o meglio di iper-dettagli – solo apparentemente pleonastici, in realtà del tutto funzionali –, al punto da emergere rispetto alla bidimensionalità della pagina scritta, e da non soffrire di alcun senso di inferiorità – per quanto riguarda il coinvolgimento del lettore – rispetto al più avvincente dei romanzi polizieschi o fantastici. Wallace descrive con un sarcasmo sottile e persistente ogni singola forzatura nella vita da crociera di lusso, dall’eccesso di attenzioni da parte del personale di bordo nei confronti dei passeggeri – che sfocia spesso in invadenza –, ai modi in cui gli ospiti si atteggiano e si vestono in occasione delle cene e dei vari eventi che animano la settimana a mollo nell’oceano. In questo modo, riesce a pennellare con rara efficacia il concetto fondamentale su cui si basano le crociere extra lusso, la merce di scambio per cui la gente è disposta a sborsare migliaia di dollari, ovvero la creazione di un sogno, di un’illusione.

La possibilità di trascorrere sette giorni in un microcosmo sintetico distante anni luce dalla propria quotidianità, in cui non bisogna pensare a nulla, nemmeno a cucinare o a ripiegare un asciugamano, e nel quale ci si può concentrare unicamente nell’essere ciò che non si è in qualunque altro giorno della propria esistenza. I paradossi delle etichette da vita di lusso sono assai numerosi nel saggio. Ecco un esempio, scelto aprendo una pagina a caso. Wallace descrive lo zelo e l’irreprensibilità dell’equipaggio delle “MV Zenith”, «una nave di 47.255 tonnellate», nel sostituire gli asciugamani quando ci si alza, dopo aver preso il sole, da un lettino sul ponte per rientrare in cabina, al punto che non ci si deve prendere nemmeno l’incomodo di riporli nell’apposito cesto dei panni usati.

«La verità – scrive l’autore – è che gli addetti sono così allenati a rimuovere gli asciugamani usati che anche se vi alzate un attimo per riapplicarvi un po’ di ZnO [nomenclatura abbreviata che in chimica indica l’ossido di zinco, composto adoperato nelle creme solari per proteggere la cute dai raggi dannosi. Questo è un esempio molto significativo dello stile iper-dettagliato di Wallace, Ndr] o per contemplare il paesaggio, succede spesso che quando vi voltate l’asciugamano è sparito e la sdraio è di nuovo all’inclinazione standard di 45°, e voi siete costretti a regolarla da capo e ad andare al carrello a prendere un altro asciugamano morbido e fresco, di cui bisogna ammettere che non c’è carenza».

Un’ingerenza di questo tipo con molta probabilità infastidirebbe chiunque sulla terraferma. Tra l’altro si delinea chiaramente un paradosso, dal momento che un eccesso di attenzioni volte a semplificare la vita dei passeggeri si traduce in realtà in una complicazione: visto che bisogna risistemare il lettino e prendere un asciugamano nuovo, è chiaro che entrambi i gesti potevano essere evitati. Eppure sulla “MV Zenith”, in cui «il rapporto equipaggio passeggeri era di 1,2 a 2», nessuno sembra percepire la cosa in modo negativo, a parte l’autore. È questo punto di vista, estremamente aderente alla funzionalità e alla logica delle cose che accadono a bordo, che rende Wallace una specie di alieno in mezzo a migliaia di propri simili, che sembrano tutti posseduti da un incantesimo dalla durata perfettamente coincidente con la crociera. Ed è proprio questo l’espediente che rende così efficace la sua narrazione.

In sostanza, quello che David Foster Wallace è riuscito a compiere, scrivendo Una cosa divertente che non farò mai più, è una specie di piccolo, modesto e del tutto umano miracolo. Il saggio, infatti, è bulimicamente imbottito di nomi, soprannomi e nomignoli, numeri, note a piè di pagina, frasi incidentali, dettagli (anche molto tecnici) – viene addirittura riportato fedelmente il marchio del produttore degli oblò di cui è dotata la “MV Zenith”. Eppure, nonostante tutto questo, la lettura è scorrevole, piacevole e coinvolgente. Ogni dettaglio, invece che innescare nella mente di chi legge quei tipici “cortocircuiti” che tendono a diluire l’attenzione, è una goccia di colla in più che tiene ulteriormente “appiccicati” alla pagina. Insomma, un’opera a cui la mia idea iniziale di saggio si avvicina più o meno come una crociera extra lusso alla vita di tutti i giorni.

Jacopo Iannacci

(www.excursus.org, anno VII, n. 70, maggio 2015)