C’era una volta… perché le fiabe sono “cattive”?

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di IVANA VACCARONI – Il 02 ottobre 2016, sull’inserto La lettura del Corriere della Sera, è apparso un articolo di Ranieri Polese su Walt Disney in cui si cita lo psicoanalista Bruno Bettelheim, il quale avrebbe giudicato i suoi cartoni animati troppo “addolciti” rispetto ai racconti o alle fiabe originali.

Gli americani, invece, li ritenevano addirittura troppo violenti, capaci di atterrire i bambini.

Mi sono chiesta più  volte quale sia il motivo per cui le favole sono sempre molto cattive e quale messaggio vogliano comunicare. Se consideriamo, ad esempio, le più importanti come Cappuccetto Rosso, Pollicino, Cenerentola, Biancaneve, e molte altre, notiamo che in nessuna di esse esiste una famiglia tradizionale, alla “Mulino bianco”, insomma. In ciascuna di esse i genitori o non ci sono per nulla o comunque ce n’è uno solo e l’altro, se va bene, è ammalato o lontano.

In Pollicino i genitori sono costretti ad abbandonare i figli nel bosco perché  non hanno i mezzi per sfamarli, cosa di cui i bambini sono perfettamente consapevoli. Entrano poi in scena orchi, streghe e animali feroci che sono gli antagonisti della storia. Soltanto con l’introduzione del mezzo magico, come un anello, un baule o qualcosa del genere la storia si avvia verso il lieto fine.

Ora, mettendo tutto ciò  a confronto con opere famose notiamo che non c’è nulla di diverso: nel romanzo I promessi sposi di manzoniana memoria non esiste traccia di una “vera” famiglia, quella con due genitori e alcuni figli che… vivono felici e contenti. Tranne quella del sarto – che, però, nella storia ha un ruolo marginale – le altre sono totalmente atipiche. Vi mancano infatti addirittura entrambi i genitori, come per uno dei protagonisti, Renzo, o, se ci sono, spesso la madre non è per nulla influente, come nel caso della monaca di Monza, dove è soltanto il padre a decidere del futuro della figlia.

Eppure è il romanzo della Divina Provvidenza, quello che segna l’avvenuto rientro di Manzoni nella religione cattolica.

E che dire dei Malavoglia, ad esempio, dove i componenti, per ammissione del nonno, padron ‘Ntoni, sono “come le dita di una mano…”.

Subito dopo, però, la barca, unica fonte di sostentamento della famiglia e con un nome drammaticamente fuorviante (si chiama “Provvidenza”) affonda e il capofamiglia muore. La famiglia quindi si disintegra letteralmente e quasi tutti i suoi componenti subiranno un destino molto molto amaro.

Se però  per le opere letterarie il messaggio è  per gli adulti e ha scopi ben precisi, anche se spesso non così evidenti e condivisibili, quello delle favole mi sembra più difficilmente comprensibile.

Trovo che i bambini abbiano il diritto di credere in qualcosa di positivo, di utile, con messaggi di speranza e di vittoria del bene. Ciò non significa nascondere loro il male o le difficoltà della vita, ma questi sono concetti con cui, comunque, impareranno molto presto a fare i conti e a subire.

E allora lasciamoli sognare, facciamo credere loro che sia possibile volare, amarsi e far parte tutti di una famiglia, appunto, una grande famiglia chiamata mondo.

Ivana Vaccaroni

(www.excursus.org, anno VIII, n. 76, ottobre 2016)