Carlos Paz e altre mitologie private – Marino Magliani

di RITA CASSANI – «Chiedendomi a cosa assomiglia questa raccolta ho pensato a certe palle che scendono dal soffitto delle discoteche negli anni Settanta e Ottanta, e forse se ne trovano ancora oggi, tutte fatte di specchietti quadrati, le quali girando su se stesse raccoglievano la luce di un punto fisso e ogni volta uno specchietto sembrava diverso dall’altro, ma non lo era, o forse sì, e il trucco non si capiva». È in questi termini che Marino Magliani parla del proprio libro, Carlos Paz e altre mitologie private (Amos Edizioni, pp. 226, € 15,00), nella nota in chiusura.

Un libro di racconti, quello di Magliani, dove ciascuna storia è uno di quegli specchietti di cui lui ci parla, che riflette un’unica luce, ma con angolazioni e risultati differenti. Un libro profondamente autobiografico e introspettivo, nel quale, però, l’autobiografia pare confondersi con l’invenzione in un continuo gioco di rimandi tra un racconto e l’altro. Esattamente come in un gioco di specchi.

Sullo sfondo di questa unica e molteplice storia ci sono i paesaggi, unici e molteplici, dell’anima e della geografia: la Liguria, l’Olanda, le lande piemontesi, ma non solo. Il viaggio nello spazio diventa una categoria della mente, una crescita spirituale che informa tutti i racconti. Ma il viaggio non avviene solo nello spazio.

Marino Magliani viaggia anche nel tempo, in una dimensione contemporaneamente fisica e metafisica come in Le notti di Sorba, dove il protagonista, che vive in Olanda, torna nella propria terra d’origine, la Liguria, per capire perché non si ricorda più dove fosse il suo posto letto nel collegio che frequentava in quinta elementare. In questo viaggio, il motivo di ritrovare questo brano della sua infanzia diventa il pretesto per rivivere episodi e contraddizioni della sua intera vita, tasselli onirici del suo passato, fino all’inaspettato finale. O come in Andante crociera, dove il protagonista incontra un angelo che lo prega di raccontare di lui; solo se si viene raccontati da qualcuno, infatti, si può essere certi di esistere. Ma poi l’angelo si appropria della sua identità, e inizia a sua volta a scrivere racconti.

In questa raccolta Marino Magliani, solo in apparenza, racconta sempre la stessa storia: l’infanzia nel paesino di Dolcedo, poi il collegio in Piemonte, e ancora il servizio sulle navi traghetto, i viaggi, l’emigrazione… ma ogni volta viene introdotto un elemento nuovo, una tessera che completa il complesso mosaico di un personaggio unico, protagonista, in fondo, di tutte le storie.

Contemporaneamente, però, l’autore gioca con il rapporto tra vero e finto, togliendo il velo che li separa. «La storia che ho scritto la settimana scorsa per l’antologia olandese è la cronaca di una passeggiata al mare. […] Ho intitolato il racconto Sabbia. […] È una storia finta, tutto lì, e la gente che conosce la sabbia, i viventi produttori di spazzatura e residenti di questo palazzo, la leggeranno nella loro lingua e penseranno che sia finta anche nella loro lingua originale» (Spazzatura).

Il racconto di cui parla nel brano, Sabbia, è riportato in apertura della raccolta. Avere nello stesso contesto sia il racconto, che la sua spiegazione, fa sul lettore lo strano effetto che farebbe entrare nella scenografia di un film e guardare dietro le impalcature. Quando uno scrittore narra una storia, questa diventa vera per chi la legge. E se la storia ha una struttura autobiografica, il lettore ci crede. Ma se lo scrittore rivela che questa sua autobiografia è inventata, crolla il castello di carte, la scenografia si rivela per quello che è. In questa manovra la dimensione metanarrativa è fortissima, l’effetto di spaesamento è straordinario. Quello che sembrava una realtà diventa finzione, la scenografia si squarcia e rivela la propria falsità. A questo punto, cosa è vero e cosa è falso, nei racconti di questa raccolta?

Se basta una frase per far dubitare di ogni riferimento autobiografico, a questo punto il lettore si chiederà se anche tutto il resto non sia inventato.

È la dimensione dell’incertezza, la mancanza di precisi punti di riferimento, a dominare i racconti di questa raccolta. Dove si rischia di non credere a cose vere, o al contrario, di credere a cose palesemente senza senso. Come in Calciobalilla umano in Olanda: la cronaca in diretta di una singolare partita di uno strano football nel quale i giocatori non corrono nel campo, ma sono imbracati e si reggono a una pertica. E qualcuno li fa “rollare” come i pupazzetti del calciobalilla.

In questo ribaltamento generale di prospettive, l’unico rifugio diventa allora la quotidianità, con i suoi piccoli riti e le abitudini. Io faccio, quindi esisto. È qui che l’anima trova la propria dimora più autentica e profonda: nelle piccole cose. Per questo, le piccole cose sono descritte con una puntigliosità quasi ossessiva, come le regole del gioco delle carte al bar del paese, in Le carte o la partita di bocce in Il braccio.

Tutto il resto non esiste più nel momento in cui se ne perdono le coordinate. E il perdersi nello spazio e nel tempo è un’esperienza che l’autore offre in ogni pagina al lettore, condividendola con lui «Mi fu chiaro che era esattamente come dicevano i dottori: c’era un tempo che non mi apparteneva, e se vivevo in quel tempo non avevo paura, anche se del vero tempo perdevo il controllo» (Corsica Ferry).

Anche lo stile linguistico rispecchia questo dualismo destabilizzante. Si va da brani intensi, che sfiorano la poesia: «Ora su quel terrazzo c’erano stracci di luce appesi miracolosamente a uno scoglio lichenoso» (Soggiorno stagionale in Liguria); «La sera, nel brusio tremante dei tramonti, gli animali dei prati tagliavano il silenzio con la lama della luna» (Sabbia); a un linguaggio volutamente terragno, scurrile: «Ce n’era anche uno che di tope se ne portava a letto due o tre al giorno, aveva il comodino pieno di vitamine e se stava tre giorni senza chiavare si faceva fare una pompa da uno zingaro puto che vendeva panini al jamòn serrano in un chiosco sulla spiaggia» (Carlos Paz).

Forse anche quello linguistico è parte di quello sdoppiamento di cui soffrono i personaggi dei racconti, uno degli specchietti della palla da discoteca: «Si ricordò che lo scrittore gli aveva raccomandato di pulire sempre lo specchio e di non giocarci, altrimenti gli io narrativi si scambiavano il posto e l’io narrativo che ora era lui e aveva la pancia, ma nello specchio poteva perderla, entrava nello specchio e l’io narrante con la pancia che abitava nello specchio non poteva specchiarsi» (La pancia).

Tutto è finto, persino la verità. O al contrario: tutto è vero, persino la finzione. «Finalmente dipendeva da lui, dalle nuove parole che aspettavano di essere pronunciate» (Sabbia).

In questa dimensione ogni pagina è una scoperta, ma anche un passo nelle sabbie mobili, nell’incertezza e nel dubbio (Le notti di Sorba). Un’esperienza da fare.

Rita Cassani Marino Magliani Marino Magliani 

 Marino Magliani Marino Magliani 

(www.excursus.org, anno IX, n. 83, giugno 2017) Marino Magliani