Qualcosa che non muore – Lino Berton

di SIMONA CASADIO – «Poi conobbi una ragazza bellissima dai capelli neri e la sposai senza sapere che in realtà i capelli erano rossi».
«Non vedi i miei capelli? Sono neri, ma se li guardi in controluce hanno dei riflessi rossi».
«Ogni cosa in una stanza d’ospedale ha i suoi colori. Il mare, l’erba, i laghi, anche i capelli, quando cadono, hanno un colore preciso». Lino Berton

È semplice, intensa, la descrizione della malattia e della sofferenza nel primo romanzo di Lino Berton Qualcosa che non muore (Amos Edizioni, pp. 216, € 15,00), autobiografico. Non altrettanto semplice e naturale ne è stata l’elaborazione, ma come poteva essere diversamente? Lino ha impiegato sette anni per la scrittura mettendo da parte un pensiero al giorno. Il risultato è una storia emblematica, un libro di amore e insieme di denuncia nei confronti della malasanità, i suoi pretesti e i suoi effetti.

Progettavano di partire per l’Austria, Sandra e il marito, poiché avevano bisogno di distrarsi un po’ e «camminare sull’erba a piedi nudi, vicino a un lago»; ma un braccio dolorante porta Sandra a fare una visita di controllo.
La malattia viene diagnosticata il 5 maggio 2006: linfoma linfoblastico.
«È nei polmoni?»
«No. Tra i polmoni».

Il lettore è portato a un’iniziale impressione di smarrimento, coinvolto dall’io narrante che, nella descrizione cronologica degli avvenimenti, rivive i fatti con lo stesso sconcerto di allora. In un primo momento la situazione rimane bloccata, a causa di un ritardo diagnostico di tre settimane, dovuto a una mancata comunicazione fra i colleghi di reparti diversi, poi Sandra viene finalmente sottoposta alla somministrazione della chemio; infine l’«interesse distratto», lo sconforto e l’Inferno.

Se al lettore risulta facile l’accostamento Inferno-ospedale come luogo fisicamente determinato, il protagonista fatica a considerarlo tale. A lui appare come un non-luogo, una condizione dell’anima che si ritrova impigliata nella sua stessa ombra, sola, incapace di comunicare nella maniera che le è più familiare.

All’Inferno «il centro del tutto era il vuoto», è un luogo nel quale è possibile percepire il rumore dei motoscafi e le voci delle persone che corrono sull’erba, ma «il lago non c’era ormai più». Disperatamente, Lino si sforza di comprendere le implicite dinamiche di quel luogo allucinante, che si muove per inerzia, fra lotte di potere, baratti, azioni non determinate da altro se non interesse e informazioni concesse sempre a metà. L’intenzione è quella di accompagnare Sandra di nuovo all’esterno, in un’ascesa penosa ma necessaria quanto la vita.

Demoni minori, che si alternano comicamente e tragicamente come in una danza, le vicine di letto di Sandra: la «pettegola sbrodolona ottimista che tutti temono», la signora che «pende dalle labbra dei medici» e la suora che in convento, con le sue preghiere, scacciava «il diavolo, diversi diavoli, senza volto ma con un senso». Paradossalmente, i reali oppositori sono i medici, la cui assidua frequentazione forzata svela la rassicurante bugia, ovvero «la favola che dice stai tranquillo, ti puoi fidare dell’Inferno».

È necessario acquisire la consapevolezza di essere in balìa di un sistema non strutturato per la cura dei pazienti, «costruito più per dar l’immagine di un servizio, che per garantirlo», un organismo che si affida in modo cieco alle tecniche e non approfondisce né si interroga a sufficienza sulle relative problematiche. «Déi senz’anima» che hanno fra le mani la vita di Sandra; tuttavia la protagonista rimane calma, aspettando. «Per lei non c’erano i crepacci che potevano risucchiare, i ponti tibetani dovevano reggere tutti, e se c’era un cane, qualsiasi cane, bisognava fermarsi e accarezzarlo come se nessuno di loro la potesse mordere».

Il lettore non sbaglierà nell’accorgersi, con una naturalezza leggermente accusatoria, della sensazione di straniamento che accompagna Lino nelle prime pagine, un meccanismo di difesa umano per per soffocare e negare la sofferenza.

A questo segue in maniera naturale l’accettazione, il rafforzamento del legame e il consolidarsi della determinazione. Perché «non è mica necessario levarsi in volo fino al sole, basta strisciare fino a un posticino pulito sulla terra dove ogni tanto il sole faccia la sua comparsa e ci si possa riscaldare un po’» [1]. Sandra è la sua «tana», e lui deve prendersi cura di lei. È la scoperta dell’amore, «qualcosa che non muore» e della speranza. Lino si adegua così «al cambiare del colore di quelle maledette bandane che si accanivano contro la morte».

Simona Casadio Lino Berton

NOTA BIBLIOGRAFICA
[1]- Franz Kafka, Lettera al padre, Garzanti Libri, Milano, 2016. Lino Berton

(www.excursus.org, anno X, n. 88, marzo-aprile 2018) Lino Berton