Perché la ’ndrangheta? – Alessandro Tarsia

di SABRINA GRANESE – Il nuovo pamphlet di Alessandro Tarsia incuriosisce fin dal titolo: Perché la ʼndrangheta? Antropologia dei calabresi (Pungitopo, pp. 200, € 15,00). Ma non è stata tanto la presenza della parola ʼndrangheta ad avermi fatto leggere le pagine tutte d’un fiato, quanto quella del termine antropologia, poiché la domanda che spinge ad un’analisi attenta di un fenomeno è proprio: Perché?

Partendo dal concetto di base per cui l’antropologia studia l’essere umano inserito in contesti socio-culturali specifici e interpreta i fenomeni culturali in stretta connessione con e in dipendenza dalle strutture sociali dei singoli gruppi etnici, in questo saggio i calabresi sono soggetti oggettivati dall’autore che ne propone un’analisi genetica, ponendo in evidenza le logiche socio-culturali, economiche e politiche che risiedono alla base delle relazioni esistenti, all’interno di un campo sociale, quello calabrese, tra “dominanti e dominati”, inseriti in un sistema “freddo”. Tale sistema congela, o tende a congelare, ogni forma di mutamento volto a minacciare l’equilibrio di un “ecosistema” che tende a preservare l’ignoranza come fonte della sua sopravvivenza.

Il territorio calabrese viene esplorato da nord a sud, con un’operazione archeologica. Il lettore viene messo a conoscenza delle opere d’arte, delle ricchezze storiche, delle bellezze naturalistiche della regione, che invece «i calabresi ignorano e spesso odiano» poiché impedisce loro di costruire e spettacolarizzare, attraverso strutture fatte di cemento a basso costo, vaste zone con tratti da set hollywoodiano.

La suddivisione delle classi sociali, pressoché immutata per «più di due millenni di storia», è quanto mai emblematica per comprendere le radici dell’habitus del calabrese contemporaneo: pochi, anzi pochissimi, nobili latifondisti (dalle dubbie origini) e moltissimi servi della gleba, per lo più braccianti. Connesso a questa gerarchia di potere “violento” il fenomeno del brigantaggio. Un passato, dunque, nonostante ciò che affermano i neoborbonici, niente affatto glorioso e soprattutto non corrispondente alla verità della storia, connotato da un’estrema povertà e da analfabetismo, in cui «i diritti fondamentali dell’uomo erano negati», su tutti la giustizia, in un sistema basato sul sopruso del più forte sul più debole. Il Risorgimento viene additato come colpevole di aver depredato le ricchezze calabresi, quando invece la popolazione era ferma e chiusa in un isolamento culturale ed economico, imprigionata in una dimensione “altra” caratterizzata da ignoranza, povertà e sofferenza, ingredienti necessari alla radicalizzazione dell’ideologia ʼndranghetista.

In questa posizione retrograda, la popolazione calabrese rifiuta ogni tipo di innovazione per valorizzare le tecniche di coltivazione, oltraggiose verso la memoria degli avi. Superstizione e diffidenza verso il “nuovo” e, quindi, il diverso, persino verso il proprio “vicino di casa”, definiscono una forma di pensiero che ha alimentato una mentalità chiusa e conservatrice.

Tarsia non dimentica i pochi imprenditori virtuosi, i quali però divengono oggetto di vessazioni da parte dei clan dominanti o, addirittura, dagli stessi conterranei che, annebbiati da un sistema di pensiero cognitivo e comportamentale malato non si rendono conto di essere i primi – nonostante ogni calabrese si vanti di amare la propria terra oltre ogni misura – ad aver distrutto, in nome del profitto immediato, ettari ed ettari di terreno, insieme alle colture tipiche del territorio, in gran parte dati alla fiamme e sostituite da una flora “esotica”, importata nel corso del tempo dai “baroni”, affascinati dallo sfarzo made in Usa.

Il tutto condito da possibili frane a valle e dalla devastazione incondizionata di ogni forma di vita o testimonianza storica. Opere che, però, per la loro illuminazione, è possibile scorgere da km di distanza. Il cemento «bello, eterno e che non sporca», vince sulla natura cantata dai poeti arcadici.

L’aggressività è un altro elemento fondante della forma mentis del calabrese, strettamente connessa alla formazione della personalità criminale, condita da un’attenta «rimozione del rimorso» con cui si “svezza” il fanciullo e che confluisce in un’idea di machismo dai tratti grotteschi e caratterizzato da un complesso edipico inesploso, nonché esempio del più bieco dominio maschile. Narcisismo ed egocentrismo vengono coltivati fin dalla culla, in modo che il figlio ripeta ciò che ha fatto il padre, e il nonno prima di lui, così da perpetuare un sistema malato capace di alimentare quel “cancro” che, ormai, si è propagato fin oltre i confini calabresi.

Il bellissimo e pluridecantato mare calabro viene da decenni utilizzato come una discarica di ogni tipo di scoria; torrenti, ruscelli, fiumi sono «condutture fognarie a cielo aperto». La Sila non è messa meglio, degradata e stuprata nelle sue potenzialità territoriali. In definitiva: «ovunque ci sia un promontorio sul lago o sul mare sorgono cantieri edili» e case abusive, prontamente condonate.

Per quanto narrazioni mitiche decantino la ʼndrangheta come baluardo della difesa del territorio, nonché custode delle nobili tradizioni calabresi, un protettore silenzioso che difende dallo Stato nemico, la regione viene data alla fiamme, cementificata e inquinata. Navi veleno ancorate nei porti, incastonati in un paesaggio d’inestimabile bellezza, vengono fatte approdare dagli stessi “protettori” di cui non si è sufficientemente osteggiato il potere, che in fondo è una forma amplificata, un rispecchiamento della condizione antropologica, più o meno inconscia, di un intero popolo. Le cause del degrado, della povertà e dello stesso fenomeno dellaʼndrangheta sono considerate una responsabilità esterna. Il vittimismo spadroneggia e, mentre ci si piange addosso, il territorio cade inesorabilmente a pezzi. I meriti e le vittorie sono sempre «successi personali» o familiari, le «disgrazie, invece, provengono dall’Alto e dall’Altrove».

Il comune sistema di pensiero spesso si basa sull’espediente, sulla via più facile, che (si pensa erroneamente) sia più proficua e meno faticosa. Il silenzio è la risposta alle domande scomode, quando non si sussurra una velata minaccia. In questo senso il clientelismo e la logica del do ut des diventano le migliori formule attraverso cui analizzare ogni tipo di rapporto in ogni contesto, lavorativo e personale.

L’«assalto alla scrivania» è solo uno dei tanti esempi. Centinaia di assunzioni di personale incompetente e impreparato, basate sui favoritismi del cosiddetto voto di scambio, farcito da un atteggiamento reverenziale verso il politico di turno, spinto al massimo dell’umiliazione della dignità personale: come si dice «si bussa cu ri pedi», perché le braccia sono occupate da ceste di leccornie in dono al benefattore corrotto. Ancora il bracciante e il latifondista, dunque.

Quest’aspetto si connette direttamente a una concezione del lavoro che si pensa sia l’unica possibile: il capo da non contraddire, da “ringraziare”; il lavoro nero; il mobbing; una competizione malsana ai limiti della legalità. La meritocrazia non rientra nel vocabolario. Il lavoro è un’entità astratta, malefica, che pretende che l’individuo si logori per la fatica di far fronte ai suoi oneri sociali; e quindi il calabrese si muove lentamente, non fa oltre il dovuto (quando e se lo fa bene), e l’otium non è di certo votato alla ricerca intellettuale. 

L’apparenza di un benessere inesistente, per cui si organizzano feste, si crea svago, si costruiscono (male) inutili strutture, si regge su scenografie di cartone che devono distrarre la cittadinanza dall’effettivo degrado socio-culturale. Dietro di esse si nascondono burattinai privi di coscienza, pifferai magici che suonano tarantelle, che parlano di mitiche origini e di valori perduti, o mai esistiti, anzi osteggiati, mentre frotte di topolini annegano nel fiume dell’inconsapevolezza di un futuro negato. Centri commerciali, stadi, luoghi d’intrattenimento vengono costruiti sulle macerie della propria storia, a sfavore di una sana economia del turismo.

Il “sistema famiglia” è quanto mai esplicativo per comprendere le dinamiche che, poi, vengono proiettate nel contesto sociale e relazionale: è un «ecosistema separato», basato su un rispetto fondato sul senso di colpa e sulla logica del «dentro/fuori», o con noi o contro di noi. «Solipsista, monolitica, totalitaria: regno dell’autarchia, dell’autoconcetto e dell’autoreferenzialità»: una comunità chiusa di cui si devono rispettare incondizionatamente i dogmi, «unico punto di riferimento», il solo rifugio.

Ciò che avviene all’esterno sembra non interessare, non può intaccarne i membri, come se essi non facessero parte della società e non contribuissero alla condizione di degrado di cui sono soggetti e oggetti. Scrive bene l’autore che questo sistema costituisca una «contromisura sociale», che “imbriglia” e tende a soffocare ogni spinta individualista (vista sempre come un tradimento) capace di mettere in discussione l’equilibrio dell’istituzione familiare. I problemi non esistono, perché basta negarli, non vederli, non parlarne. Ci si siede a un tavolo e ci si riempie lo stomaco di piatti tipici (non tipici) della “leggera” dieta mediterranea, o si riempiono i vuoti comunicativi e personali con espedienti che permettono di appagare i desideri nell’immediato, in modo da non sforzarsi. Ciò che scaturisce dalla noia e dalla frustrazione è tutt’altro discorso.

Da qui la convinzione di saper manipolare tutto dall’alto di una genialità e di una conoscenza di dubbia fondatezza. L’ideologia del clan criminale ancora una volta nutre e si nutre di questi elementi, amplificandone la portata, propagandando l’amore per la propria famiglia di appartenenza, senza apportare contributi effettivi, però, alle altre famiglie, ma anzi solo «povertà, prevaricazione, abusi». Viene tutelato un solo aspetto: l’ignoranza, affinché si possa continuare a far credere che la colpa è sempre dell’Altro, che proviene dall’esterno, quando in realtà lo stato di degradazione è perpetuato dagli stessi che propagandano manifesti politici atti alla difesa e alla bonifica del territorio a beneficio di tutti, guadagnando su quello stesso degrado da loro creato, o che hanno contribuito a creare, nonostante l’amore per la propria “bella terra”.

Il patriarcato persiste facendo beffa al progresso culturale del resto del Paese, il «dominio maschile» non è solo un testo fondamentale completamente sconosciuto di Pierre Bourdieu, è una prassi psicologica e comportamentale più o meno silenziosamente ancora reiterata a scapito delle donne, al fine di sfruttarle e contenerle in una condizione sociale anacronistica, sminuendone il valore e l’importanza. Una concezione misogina che confina la donna al doversi sentire realizzata esclusivamente nel suo essere moglie e madre, a cui eventualmente spetta di accettare senza riserve l’amante («schiava personale») del marito, il quale, vittima di tabù patologici, appaga altrove le sue pulsioni sessuali represse. Questa modalità di pensiero ignora la voce di fonti autorevoli che, invece, raccontano di donne forti, lavoratrici più degli uomini, capaci di svolgere i compiti «più duri, ripetitivi e pesanti».

L’omuncolo in questione, «marito/padre/padrone», scimmiotta ancora il barone latifondista radicato nella sua memoria ancestrale e si preoccupa d’introiettare nel suo piccolo “giovin signore” (suo clone) un codice etico-comportamentale malato e umiliante, capace di generare eterni conflitti irrisolti che sfogherà a sua volta sulla malcapitata che dovrà prendere il posto della madre. Madre soffocante, maniaca del controllo, irrealizzata, quindi frustrata, incapace di «staccarsi dai propri figli», sui quali proietterà l’immagine di un sé incompiuto e annientato. La cultura familiare coltiva fin dall’interno del nucleo, cui spetta di fornire i principi etici e morali di base dell’individuo in formazione, i sentimenti di diffidenza verso chi non appartiene al clan. Vengono messi al bando l’altruismo e la solidarietà, a favore del «tutti contro tutti».

Queste famiglie non sono, come si vuole far credere, delle oasi di benessere, ma sono spesso contraddistinte da un fare litigioso, da una comunicazione che ha tratti passivo/aggressivi, in un contesto simpaticamente offensivo e mortificante. Sfida e competizione malsana sono inculcati come valori vincenti, incastonati in un ego spropositato e in una perenne sopravvalutazione di se stessi.

Ciò genera una personalità aggressiva che sfocia in comportamenti basati sulla logica del forte che vince sul debole, attraverso atti di bieca vigliaccheria. Vandalismo, derisione e torture psicologiche diventano hobby da coltivare, al pari del calcio, unico sport adorato, perché simbolo del machismo assoluto. Viene da sé che l’omosessualità sia riconosciuta come una malattia da cui prendere le distanze. Sensibilità, passione per i lavori artistici e creativi, nutrire dubbi o sentimenti in generale appartengono alla sfera prettamente femminile, quindi, omosessuale, e donne e gay «in calabrese, divengono sinonimi».

La politica è una fonte da cui attingere a piene mani. Maghi del trasformismo, si è capaci di vendere e di vendersi al migliore offerente a discapito dell’amore decantato per la propria terra e per i concittadini. Una macchina che produce soldi immediati, macchiati dalla corruzione e da interessi di cosche mafiose. Un sistema politico malato, da non curare, ma anzi da rendere, se possibile, ancora più malato, fino a far abituare tutti a questo tipo di realtà, come lobotomizzati, facendo credere che è un sistema che non si può combattere, che non c’è alternativa o, peggio, negandone le nefandezze o la realtà oggettiva. La cultura, infatti, ci si preoccupa di annientarla e osteggiarla in tutti i modi possibili: potrebbe ridare la vista ai ciechi.

Giunti alla fine del pamphlet l’autore non dimentica, benché abbia già disseminato nel testo tanti ottimi spunti ed esempi di buona prassi per l’onesta popolazione calabrese, di proporre delle soluzioni, un valido cambio di prospettiva rispetto all’approccio dei problemi, un «vaccino» per combattere non solo la criminalità organizzata, ma ancor di più un intero sistema di pensiero.

Nel sistema giuridico, nelle leggi, nel ruolo della scuola e, quindi, della cultura si possono trovare i migliori strumenti oppositivi e pacifici, in contrapposizione «all’occupazione armata» del suolo cittadino. Va trovata una nuova formula educativa, emendata dai valori/disvalori radicati in un passato che ha poco di cui gloriarsi. Il lavoro, infine, è l’antidoto migliore per la nobilitazione di un individuo che recuperi la dignità e il rispetto verso se stesso e verso le istituzioni.

Non si può considerare disfattista il libro di Alessandro Tarsia, e non si può neanche biasimare un certo sentimento di rabbia che si avverte nel suo sottotesto, poiché il suo scopo è illuminare e scuotere dal torpore soprattutto coloro che non si riconoscono in un’analisi lucida niente affatto spietata, ma quanto mai veritiera di una regione che potrebbe ancora guarire se ognuno si adoperasse per cambiare le cose a beneficio di tutti.

Sabrina Granese

(www.excursus.org, anno VII, n. 71, luglio-agosto 2015)