Nel cavo di una mano – Giovanna Righini Ricci

righiniriccinelcavodiunamanodi CHIARA PINI – Attraverso la descrizione di brevi aneddoti della sua infanzia Giovanna Righini Ricci ci proietta negli anni Trenta; ma non in quelli che già conosciamo, bensì in un piccolo mondo dimenticato in cui il ritmo è ancora determinato dallo scandirsi delle stagioni.

Nel cavo della mano. Un pugno di terra (Prefazione di Ennio Dirani, Longo Editore, pp. 148, € 8,50) racconta un universo semplice, ricco di miseria e di fatiche quotidiane, che però, nelle cicliche tradizioni, nasconde lo stretto legame tra uomo e natura, legame che sarà bruscamente reciso nel corso di pochi anni e che stravolgerà tutte le più antiche abitudini delle famiglie contadine romagnole fino a renderle un mondo sommerso.

L’autrice riporta alla luce tutto ciò come un prezioso reperto archeologico che non deve essere dimenticato. Il libro raccoglie una serie di racconti che sono suddivisi secondo diverse logiche narrative, ma che seguono tutte un andamento cronologico. Le prime tre sezioni riguardano gli anni che precedono la scuola, l’infanzia della scrittrice, completamente immersa nella campagna, dove tutti vivevano ubriachi di stanchezza e di umile felicità. Le ultime due sezioni rappresentano, invece, l’adolescenza trascorsa durante la guerra, con gli inevitabili stravolgimenti nella vita della “vecchia casa del pero”, e l’età adulta, che coincide con il dopoguerra, gli anni del benessere e quindi del distacco totale da quel mondo semplice, quasi primordiale.

I protagonisti di questi brevi racconti, quasi tutti autobiografici, sono i luoghi, le persone, i modi di vivere e soprattutto i lavori che vengono svolti ogni giorno da ciascun membro della grande casata patriarcale guidata da nonno Tranquillo. Tra San Bernardino di Lugo e Conselice, nella Bassa Romagna, l’autrice trascorre la sua infanzia occupata in giochi e passatempi radicalmente diversi da quelli dei ragazzi di oggi. Veniamo infatti a contatto con un tempo in cui i bambini si divertono rincorrendo le galline sull’aia per stanare i nascondigli con le uova preziose, cacciando lucertole e impegnandosi a camminare sui sassi del fiume, per poi lasciarsi cadere spensieratamente nell’acqua fresca, incuranti delle successive punizioni da parte dei genitori.

I membri della famiglia più che persone sembrano essere dei veri e propri personaggi, che incarnano un preciso ruolo, nel pieno rispetto delle usanze contadine, grazie a spiccate peculiarità. Il capofamiglia, l’austero e imperioso nonno Tranquillo, di cui tutti conoscono e hanno assaggiato «la ben nota cinghia», supervisiona silenziosamente che ogni cosa si svolga nel pieno rispetto delle tradizioni familiari.

Le donne di casa, nonna Tugnina e la madre di Giovanna, sono sempre colte nei momenti di attività, anche perché quelli di riposo erano quasi inesistenti: la produzione del pane, con l’irrinunciabile segno della croce per favorirne la lievitazione, oppure la lavatura dei panni con il ranno e nella terribile “creazione di capponi”, operazione che richiede sempre la collaborazione forzata della piccola Giovanna. Suo padre, come tutti gli uomini, è invece meno presente, in quanto sempre dedito al lavoro nei campi, che lo impegnava per tutta la giornata.

Le diverse attività che si riproponevano periodicamente nella famiglia della scrittrice, un microcosmo «così piccino da potersi racchiudere in un pugno di terra, stretto nel cavo della mano», sono filtrate da una memoria nostalgica, ma serena, e sono descritte con gli occhi spensierati di una bambina che ha vissuto gran parte di questi impieghi come un gioco. Emergono dunque festose rievocazioni di momenti di fatica collettiva come la “fienagione”, la “mietitura” o la “sfoglieria”, in cui tutta la famiglia, bambini compresi, si aiuta lavorando incessantemente anche di notte nel calore della stalla, tra un bicchiere di vino e un canto per cercare di sconfiggere il sonno e la stanchezza.

Nelle ultime due sequenze di racconti questo microcosmo, che sembrava destinato a rimanere immutato per l’eternità, viene destrutturato e annientato dalla guerra prima e dai mutamenti economico-sociali dopo.

Il disagio della trasformazione è incarnato dalla figura del padre dell’autrice, che in vecchiaia viene esortato dai tre figli, ormai cresciuti e completamente assorbiti dagli agi della modernità, a trasferirsi in città e ad abbandonare la sua “catapecchia” priva di luce e di riscaldamento. Quando, dopo mille resistenze, i figli avranno la meglio e gli anziani genitori si trasferiranno in una piccola casa di città, non più circondata dall’intimità della natura sconfinata ma da palazzine vicine e invadenti, privati delle loro occupazioni giornaliere, il grigiore dei giorni si impossesserà di loro, lasciando solo una sensazione di freddo sgomento e di totale perdita di certezze.

Leggere delle usanze di quella famiglia in cui tutto era condiviso, dalla fatica al divertimento, nei giorni nostri in cui siamo immersi in un mondo completamente trasformato dove domina l’individualismo, e con esso la solitudine, fa risaltare ancora di più l’allegria e l’unione di una vita sicuramente meno confortevole, ma più a misura d’uomo.

Giovanna Righini Ricci mostra in questo breve volume tutta la sua perizia letteraria catturando il lettore fin dalla prima pagina, permettendogli di compiere un denso viaggio nel tempo alla riscoperta di un mondo perduto. Un libro adatto per tutte le età, in grado sia di far sorridere coloro che, avendole vissute, ricordano queste antiche tradizioni sia di stupire e meravigliare chi è nato troppo tardi per entrare in contatto con questo universo così semplice da racchiudere in sé un’irripetibile magia.

Chiara Pini

(www.excursus.org, anno V, n. 47, giugno 2013)