I carnefici italiani – Simon Levis Sullam

SullamIcarneficiItalianidi GIUSEPPE LICANDRO – Uno tra i primi storici a parlare diffusamente delle atrocità compiute dalle truppe fasciste, in Africa Orientale e nella Venezia Giulia, è stato Angelo Del Boca, il quale ha demolito il mito degli “italiani brava gente”, nato a partire dal Secondo Dopoguerra. La leggenda della “bontà italiana” e della moderazione del regime fascista fu coltivata da pamphlet, come Il buonuomo Mussolini di Indro Montanelli, edito nel 1947, e da film come Italiani brava gente di Giuseppe De Santis del 1965 [1].

Ancora oggi in Italia si tende a rimuovere il ricordo delle violenze compiute dai fascisti nei confronti degli etiopi, dei libici, degli jugoslavi e degli ebrei, ritenendo a torto che solo i nazisti furono responsabili delle persecuzioni antisemite e che, invece, le autorità fasciste ebbero responsabilità molto limitate nell’Olocausto. Contro questa ostinata convinzione si è schierata una nuova leva di storici, tra i quali spicca Simon Levis Sullam, professore di storia contemporanea all’Università di Venezia, che lo scorso gennaio ha pubblicato l’interessante volume I carnefici italiani. Scene del genocidio degli ebrei, 1943-1945 (Feltrinelli, pp. 154, € 15,00) [2].

Sullam dichiara nel Prologo di voler denunciare «chi, in quali contesti, con quali motivazioni e in che modo partecipò nel nostro paese al genocidio degli ebrei […] mettendo in primo piano i carnefici, dopo che negli ultimi anni troppo spesso si è parlato soltanto dei salvatori, correndo così il rischio che sulla scena appaiano solo le vittime e i giusti e restino invece […] nell’ombra i persecutori».

Le premesse del genocidio

Il 15 luglio 1938 sul quotidiano Il Giornale d’Italia apparve un articolo anonimo dal titolo Il fascismo e i problemi della razza – meglio noto come Manifesto della razza – che diede l’avvio all’antisemitismo fascista. Dieci giorni dopo la segreteria politica del Partito Nazionale Fascista diffuse un comunicato in cui indicava come firmatari del manifesto gli scienziati Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari (Pende successivamente smentì di aver apposto la propria firma). Il manifesto ricevette poi l’adesione di 320 personalità appartenenti al mondo della cultura, della scienza, del giornalismo, della politica, nonostante molti di loro negarono successivamente di aver firmato [3]. Alla campagna di stampa fecero seguito le leggi contro gli ebrei e quelle in difesa della “razza italica”, approvate tra il 5 settembre 1938 e il 28 settembre 1940, e la Dichiarazione sulla razza votata dal Gran Consiglio del Fascismo il 6 ottobre 1938.

I provvedimenti legislativi, come ricorda Sullam, «espellevano gli ebrei dalle scuole e dalle amministrazioni pubbliche, e limitavano pesantemente le professioni, le attività economiche e le proprietà ebraiche […] con la proibizione di pubblicare e persino di dare in consultazione opere di autori ebrei». Ciò indusse varie personalità ad emigrare all’estero, tra cui il musicista Mario Castelnuovo-Tedeschi, l’economista Franco Modigliani, i fisici Emilio Segrè e Bruno Pontecorvo, il genetista Guido Pontecorvo, lo storico Arnaldo Momigliano. Tra gli esuli ci fu anche Enrico Fermi, costretto ad espatriare negli Usa perché sposato con Laura Capon, scrittrice di origine ebraica. Dopo la nascita della Repubblica Sociale Italiana, avvenuta il 23 settembre 1943, l’antisemitismo diventò uno dei cavalli di battaglia del regime di Salò, motivato, oltre che dall’influsso ideologico esercitato dal nazismo, dal bisogno di individuare negli ebrei un “capro espiatorio”, ovvero «lo “straniero interno” […] nemico e vittima per eccellenza della cultura europea».

I maggiori fautori della persecuzione degli ebrei furono Giovanni Martelloni, Giovanni Preziosi e Giocondo Protti, tre esponenti, in verità, poco conosciuti della Rsi. Martelloni, capo dell’Ufficio Affari Ebraici di Firenze e membro dell’Ispettorato Generale della Razza, svolse la duplice attività di scrittore e aguzzino, pubblicando l’opuscolo La confisca dei beni ebraici; Preziosi, ex sacerdote e giornalista, curò la ripubblicazione tra il 1944 e il 1945 dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion e fu capo dell’Igr, e la sua mansione era quella di provvedere alla confisca dei beni degli ebrei e alle azioni contro i meticci italiani e stranieri; Protti, segretario provinciale del sindacato fascista dei medici veneziani, si distinse soprattutto come conferenziere e saggista antisemita. Tra i repubblichini ideologicamente più impegnati nella lotta contro l’ebraismo si distinsero Nicola Bombacci, Guido Buffarini Guidi, Roberto Farinacci, Gino Sottochiesa, Ferdinando Mezzasoma e gli squadristi della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti. Più defilata fu la posizione assunta dal filosofo Julius Evola, il quale, in uno scritto del 1937, aveva sostenuto che «gli ebrei non sono una razza ma solo una Nazione», teorizzando un razzismo esoterico-tradizionalista che distingueva “ariani” e “giudei” su basi spirituali e morali [4].

Le responsabilità italiane

Nei territori italiani, nel biennio 1943-1945, furono uccisi 8869 ebrei, molti dei quali nei terrificanti lager della Germania e della Polonia (Auschwitz, Bergen-Belsen, Dachau, Ravensbrück), una volta smistati nel campo di Fossoli, sorto a circa sei chilometri da Carpi (Mo), o nella Risiera di San Sabba presso Trieste [5]. Il genocidio ebraico non riguardò soltanto i criminali nazisti, né fu realizzato esclusivamente dalle Ss di Heinrich Himmler e dalla Polizia di Sicurezza di Adolf Eichmann, bensì coinvolse i governi collaborazionisti installati dai tedeschi nei territori conquistati durante la seconda guerra mondiale e una parte consistente della popolazione civile.

In tal senso Sullam sottolinea che fu fondamentale «la collaborazione di vasti settori della società europea: dalle burocrazie all’economia, dai servizi alle infrastrutture» e che migliaia di cittadini comuni, spinti dall’esaltazione ideologica o dal miraggio di facili arricchimenti, «presero parte alle operazioni di arresto, depredazione, deportazione, sterminio», obbedendo senza discutere agli ordini crudeli a loro imposti.

I carnefici italiani si occupa anche dell’infelice ruolo che nella Shoah svolsero i delatori, ovvero collaborazionisti fanatici, burocrati solerti, vicini di casa e portinai intriganti, colleghi invidiosi, poliziotti avidi di denaro e, addirittura, ebrei, che speravano di salvarsi la pelle facendo le spie. Tra i confidenti ebraici, i più noti furono Mauro Grini e Celeste Di Porto; il primo operò tra Milano, Venezia, Trieste, fecendo arrestare diverse centinaia di propri conoscenti e percependo 7000 lire per ogni ebreo catturato; la seconda viveva nel Ghetto di Roma e, dopo essersi invaghita di un miliziano fascista, cominciò a cooperare con gli aguzzini antisemiti, consegnando in mano ai tedeschi una cinquantina di persone [6].

Tra le retate più clamorose di ebrei, compiute in Italia dai nazisti in combutta coi fascisti, occorre menzionare quelle avvenute nel 1943 a Roma (16 ottobre), a Firenze (6 novembre) e a Venezia (5 dicembre), in cui si arrivò a deportare circa 1500 persone nei lager tedeschi. Nelle repressioni antisemite si misero in mostra soprattutto la Guardia Nazionale Repubblicana (che includeva anche l’arma dei carabinieri della Rsi), le Brigate Nere (un corpo paramilitare guidato da Alessandro Pavolini, che però fu operativo solo dal luglio 1944 all’aprile 1945), alcuni reparti della Guardia di Finanza, vari dirigenti delle prefetture e delle questure (come Manlio Candrilli, questore di Brescia; Pietro Caruso, questore di Roma; Filippo Cordova, questore di Venezia; Alceo Ercolani, prefetto di Grosseto; Raffaele Manganiello, prefetto di Firenze).

Alle persecuzioni presero parte anche il Reparto Servizi Speciali della XCII Legione della Milizia – più noto come Banda Carità perché guidato da Mario Carità – la cui base operativa era nella famigerata Villa Triste di via Bolognese a Firenze, e il Reparto Speciale di Polizia Repubblicana – diretto da Pietro Koch e perciò conosciuto come Banda Koch – che ebbe la sua prima sede presso il comando delle Ss in via Tasso a Roma. I due gruppi, in verità, mirarono principalmente alla repressione delle formazioni partigiane. La Banda Carità, tuttavia, mise in atto anche estorsioni ai danni di cittadini ebrei «con promesse, mai mantenute, di protezione o salvezza», mentre la Banda Koch nella notte tra il 3 e il 4 febbraio 1944, andando a caccia di ebrei e imboscati, assalì la Basilica di San Paolo di Città del Vaticano e qui arrestò «un generale e altri quattro alti ufficiali, due agenti di polizia, quarantotto giovani renitenti alla leva e nove ebrei».

Le rimozioni posteriori

Nel Secondo Dopoguerra pochi tra i responsabili delle persecuzioni ebraiche in Italia furono processati, e il nuovo governo repubblicano adottò addirittura una linea morbida nei confronti dei reduci di Salò e dei cittadini collusi con le forze nazifasciste. L’antisemitismo in sé non fu ritenuto un reato da perseguire e i delatori non furono sottoposti a processo per concorso in omicidio, ma solo per collaborazionismo o saccheggio dei beni degli ebrei. Il 22 giugno 1946 fu approvato il Decreto presidenziale n. 4, meglio conosciuto come “Amnistia Togliatti”, il quale condonò i crimini militari e politici – compresi il collaborazionismo e i reati di strage, saccheggio, devastazione – purché fossero punibili con pene al di sotto dei cinque anni. In totale vennero amnistiate circa 10.000 persone, tra le quali alcuni alti gerarchi del regime passato (Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, Carlo Scorza); circa 3.000 furono invece coloro che vennero condannati. Le blande punizioni inflitte ai collaborazionisti e agli affiliati della Rsi furono all’origine del mito della “resistenza tradita” che animò le azioni violente della Volante Rossa, il gruppo clandestino partigiano che comandò in Lombardia tra il 1945 e il 1949 [7].

Il “buonismo” fu giustificato dallo stesso Palmiro Togliatti, ministro di grazia e giustizia tra il 1945 e il 1946, che in una relazione precedente all’amnistia aveva indicato «la necessità della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani»; ma a spingere verso il perdono dei carnefici antisemiti concorsero, stranamente, proprio le comunità israelitiche sopravvissute al genocidio.

Sullam spiega, infatti, che gli ebrei italiani nel Secondo Dopoguerra sostennero apertamente la rappacificazione «con la società italiana che nuovamente li aveva accolti», forse anche per far dimenticare l’appoggio che tanti di loro avevano fornito stoltamente al regime fascista prima del 1938. Tra le poche voci che protestarono contro l’eccessiva indulgenza della giustizia italiana ci fu quella di Massimo Adolfo Vitale, direttore del Comitato Ricerche Deportati Ebrei, il quale stigmatizzò il comportamento di tanti carabinieri e agenti della polizia della Rsi, i quali «eseguirono la loro opera di delazione, d’arresto e d’accompagnamento ai campi d’internamento e della morte» [8].

La falsa convinzione, secondo la quale la maggior parte degli italiani avrebbe aiutato a nascondersi molti ebrei ricercati dai nazisti, si diffuse nella storiografia italiana grazie al saggio di Renzo De Felice Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, pubblicato nel 1963. Questa tesi venne in seguito ripresa e divulgata dal documentario Il coraggio e la pietà di Nicola Caracciolo, andato in onda su RaiDue nel novembre 1986, e dal film di Alberto Negrin Giorgio Perlasca. Un eroe italiano, trasmesso su RaiUno nel gennaio 2002, che – insieme ad altre edulcorate trasmissioni televisive – hanno finito per accreditare la melensa retorica dei tanti “giusti italiani” che avrebbero salvato moltissimi ebrei.

Secondo Sullam, i “giusti” come Giorgio Perlasca furono davvero pochi, se rapportati alla moltitudine che invece collaborò con i nazisti, rendendosi complice della morte di tante vittime innocenti. E persino la Giornata della Memoria, istituita nel 2000 dal governo italiano per commemorare ogni 27 gennaio l’Olocausto, tende più a mettere in luce «i salvatori» anziché a denunciare «i carnefici», contribuendo a rimuovere, dalla coscienza collettiva nazionale, la consapevolezza delle responsabilità di «migliaia di italiani che con funzioni diverse, ma tutte essenziali al medesimo tragico esito, parteciparono al processo dello sterminio».

Giuseppe Licandro

NOTE BIBLIOGRAFICHE

[1] – Cfr. ANGELO DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Bari, 1976-1984; IDEM, Gli italiani in Libia, Laterza, Bari, 1986; IDEM, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza, 2005; INDRO MONTANELLI, Il buonuomo Mussolini, Edizioni Riunite, Milano, 1947.

[2] – Tra gli altri studi che hanno esaminato l’Olocausto in Italia ricordiamo: AA.VV., Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazione, Utet, Torino, 2010; LILIANA PICCIOTTO FARGAN, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945, Mursia, Milano, 2005; MICHELE SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzioni, Einaudi, Torino, 2000; IDEM, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 2005.

[3] – Tra i sottoscrittori ci sarebbero stati anche Giacomo Acerbo, Giorgio Almirante, Pietro Badoglio, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, Gabriele De Rosa, Julius Evola, Amintore Fanfani, Luigi Gedda, Agostino Gemelli, Giovanni Gentile, Giovanni Guareschi, Romolo Murri. Cfr. «Il manifesto della razza», in www.carloanibaldi.com; FRANCO CUOMO, I Dieci. Chi erano gli scienziati italiani che firmarono il manifesto della razza, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2005.

[4] – Cfr. JULIUS EVOLA, Il mito del sangue, Hoepli, Milano, 1937, p. 204. Sull’antisemitismo evoliano si è aperto un acceso dibattito tra gli studiosi: Renzo De Felice ha escluso che Evola possa essere assimilato ai razzisti veri e propri, poiché rifiutò «ogni teorizzazione del razzismo in chiave esclusivamente biologica», mentre Furio Jesi lo ha definito «un razzista così sporco che ripugna toccarlo con le dita». Cfr. RENZO DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1961, p. 447; FURIO JESI, Cultura di destra, Garzanti, Milano, 1993, p. 91.

[5] – La Risiera di San Sabba fu un campo di sterminio, dotato di forno crematorio, dove vennero trucidati circa 5 mila persone, perlopiù oppositori politici e partigiani. Gli ebrei che vi furono uccisi ammontarono a meno di un centinaio. Cfr. La Risiera di San Sabba, in http://moked.it/triestebraica.

[6] – Mauro Grini fu poi arrestato dai tedeschi e ucciso nella Risiera di San Sabba, anche se nel 1947 venne poi ugualmente condannato a morte dalla Corte di Assise di Milano. Celeste Di Porto fu condannata nel 1947 a 12 anni di carcere, ma grazie a un indulto e a un’amnistia, ne scontò solo 7. Cfr. SILVIO BERTOLDI L’ebrea che vendeva gli ebrei, in www.corriere.it; MIMMO FRANZINELLI, Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Feltrinelli, Milano, 2012.

[7] – Cfr. GIUSEPPE LICANDRO, Quei partigiani tenaci, convinti che la guerra non fosse finita, in www.excursus.org; FRANCESCO TRENTO, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Laterza, Bari-Roma, 2014.

[8] – Sulla figura e l’opera di Massimo Adolfo Vitale cfr. COSTANTINO DI SANTE, Auschwitz prima di “Auschwitz”. Massimo Adolfo Vitale e le prime ricerche sugli ebrei deportati dall’Italia, Ombrecorte, Verona, 2014; LILIANA PICCIOTTO FARGION, L’attività del Comitato Ricerche Deportati Ebrei. Storia di un lavoro pioneristico (1944-1945), in ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA IN PIEMONTE, Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Franco Angeli, Milano, 1989.

(www.excursus.org, anno VII, n. 69, aprile 2015)