Il vecchio che leggeva romanzi d’amore – Luis Sepúlveda

di LIDIA BICCIATO – Ci si trova fra le mani Il vecchio che leggeva romanzi d’amore di Luis Sepúlveda (traduzione di Ilide Carmignani, Guanda Editore, € 9,00), un libricino verde di appena 132 pagine, per giunta scritto con un carattere ampio, diviso in brevi capitoli, semplice e scorrevole come una buona sinfonia. E anche la tematica fondamentale, di certo accattivante, sembra un po’ semplice. Forse l’abbiamo già incontrata più volte: il rapporto uomo-natura, in particolare fra “uomo animale sociale” e “bestia animale selvaggio”, un po’ alla Moby Dick di Melville. Eppure, in questo che è il primo romanzo di Luis Sepúlveda, nonostante il formato decisamente tascabile, c’è tutto quello che ci spinge ad essere innamorati di un’azione tanto ordinaria e tanto magica: la lettura.

L’autore, infatti, ci trasporta dove assai difficilmente potremmo arrivare fisicamente: il cuore più autentico e pulsante della foresta amazzonica, al confine fra Brasile ed Ecuador. Qui, Antonio José Bolívar Proaño, «un vecchio dal corpo tutto nervi, che sembrava indifferente al fatto di ritrovarsi sulle spalle un nome così illustre», vive in una capanna passando le sue giornate facendo soltanto ciò che la sua natura gli chiede, nonché assaporando lentamente e con infinito stupore tutti i romanzi d’amore che riesce a recuperare. È arrivato al villaggio sperduto di El Idillio anni or sono, come colono, anche se da colonizzare in quel fazzoletto di terra strappato alla foresta c’era ben poco. Ad accompagnarlo aveva l’unica donna della sua vita, Dolores Encarnación, perduta poco dopo il trasferimento a causa di una febbre tropicale.

Pur essendo rispettato in seno alla comunità, Antonio José ne è in parte escluso per via del suo particolare passato: dopo essere stato morso da un serpente quasi letale, era stato salvato e accolto nella tribù indigena degli Shuar, i custodi della foresta, apprendendo lentamente la loro infinita tradizione, imparando come vivere laddove sembrava impossibile, ma dove forse la vita si dispiegava appieno. Un giorno purtroppo aveva dovuto abbandonare la tribù, perché «anche se non era uno di loro, era come uno di loro» e avrebbe dovuto quindi agire di conseguenza, ma in una tragica occasione si era macchiato di un’infamia imperdonabile.

Moltissimi anni sono passati da allora, Antonio è ormai tornato a vivere in una capanna a El Idillio, ma la sua quiete fra caccia e lettura viene increspata dal violento imperversare di una femmina di tigrillo. Questo felino, infatti, cerca vendetta contro gli uomini, quella razza che le ha ucciso i cuccioli e ferito il compagno, non per sopravvivenza, non per necessità, bensì per ricavarne pellicce.

Il sindaco della città, caricatura vivente di ciò che in teoria dovrebbe essere un’istituzione, una guida, sceglie di affidare la risoluzione del problema ad Antonio, anche per cercare di liberarsi di quell’uomo la cui saggezza amazzonica ridicolizzava continuamente la sua istruzione cittadina. Il vecchio, pur non considerandosi un cacciatore, accetta il ruolo, spinto anche dalla voglia di pareggiare un tassello spigoloso del suo passato, ossia il motivo per cui aveva dovuto abbandonare la vita fra gli Shuar. Le pagine finali del romanzo ci raccontano quindi dello scontro titanico fra uomo e felino, con una lente di ingrandimento che mette a fuoco i gorgoglii e i turbinii del flusso interiore di Antonio José prima e dopo la lotta.

I diversi piani della storia, ossia il tempo presente dell’emergenza tigrillo, il tempo passato della vita di Antonio fra gli Shuar, il tempo interiore del protagonista, dei suoi pensieri e delle sue emozioni, si intrecciano facilmente come fili di seta, con fluidità e dinamicità, movimentando il racconto senza appesantirlo.

Lo stile della narrazione è quello proprio di Luis Sepúlveda, in un incantevole bilico tra allegorismo, delicatezza, romanticismo ed espressionismo realistico, aderente al vero anche nei suoi aspetti meno confortanti. Non mancano infatti termini e scene crude di corpi lacerati, di carni, di odori sgradevoli, di putrefazioni. Eppure, questi elementi non stridono con la complessiva leggerezza del romanzo perché, a ben vedere, descrivono semplicemente la natura nella sua essenza più pura. Anzi, ci fanno quasi domandare cosa effettivamente faccia ribrezzo, se la perizia nello smembramento di un cadavere da parte delle formiche, come loro compito per una legge naturale, o la violenza del massacro degli animali della foresta da parte dell’uomo, ingiustificata e vigliacca.

Questa via “ecologista” è sicuramente la strada maestra che attraversa il racconto, che raggiunge il cuore del lettore coinvolgendolo e perturbandolo. Ci si indegna per la violenza di coloni e cacciatori di frodo, si ammira luminosamente la sapienza straordinaria del vecchio Antonio José e quindi la vita degli Shuar, che è una convivenza assoluta e quasi panica fra uomo, vegetazione, animali. Un rapporto non impossibile, che non richiede una prevaricazione da parte di uno dei tre componenti, ma che si fonda sul conoscere le leggi che mantengono l’equilibrio e rispettare chi “viene prima” e chi “ospita”.

Sempre profondamente coinvolgente è sicuramente l’incontro ravvicinato fra uomo e fiera, vissuto in un’atmosfera di rispetto reciproco, di comprensione, di sguardi, che non escludono una lotta all’ultimo sangue ma la inquadrano in una serie di regole sottese a salvaguardare la dignità di entrambi. Inoltre la lotta con un animale selvaggio, con l’espressione apparentemente invincibile e feroce della forza della natura, consente alla controparte umana di affacciarsi e scontrarsi con quelle che sono le proprie debolezze, le proprie fragilità, ma anche i propri punti di forza, i propri valori. Tutte dinamiche sempre molto forti, tradotte visivamente anche nel film Vita di Pi di Ang Lee, dell’anno 2012, in cui il protagonista Pi si trova a condividere in mezzo al mare la barca e la sopravvivenza solo con una tigre.

Tuttavia, la bellezza di quest’opera sta nell’intrecciarsi armonioso di altre strade e tragitti. Un lettore appassionato sicuramente percorrerà con delizia la via della riflessione sul potere e sulla bellezza del vivere attraverso un libro. Antonio José Bolivar «sapeva leggere. Fu la scoperta più importante della sua vita. Sapeva leggere. Possedeva l’antidoto contro il terribile veleno della vecchiaia. Sapeva leggere». E ancora «leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse, e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito. Poi faceva lo stesso con la frase completa, e così si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine. Quando un passaggio gli piaceva particolarmente lo ripeteva molte volte, tutte quelle che considerava necessarie per scoprire quanto poteva essere bello anche il linguaggio umano». Ecco, per quello straordinario gioco di specchi che è la letteratura, il lettore trova qui descritta quella forza, quella leva che lo spinge a gustare continuamente nuove storie scritte senza mai saziarsene. E la trova descritta in un vecchio dallo statuto di colono ma dall’anima indigena, in un paese lontano, con una vita a stento immaginabile. Luis Sepúlveda

Ancora più giocoso e stuzzicante è rendersi conto che la difficoltà di Antonio Josè nell’immaginare una città come Venezia («ma il mistero di una città in cui la gente aveva bisogno di barche per spostarsi, non lo capivano in nessun modo»), problema che richiede un’attenta discussione fra un piccolo gruppo di suoi compaesani, è la stessa difficoltà che abbiamo noi nell’immaginarci un modo di vivere come quello degli Shuar, dove non ci si bacia, non si posseggono beni e ci si sposta in continuazione.

Una via amena e divertente da percorrere è anche quella, certo più esigua, della rappresentazione comica di un sindaco, il «Lumaca», il «Ciccione», che ostenta rapporti con lo Stato (cosa mai sarà questo Stato agli abitanti di El Idillio non è mica tanto chiaro) e un’istruzione che certo non è accompagnata al semplice buon senso e ancora meno alle regole della vita in un habitat come quello di El Idillio. Una piccola viuzza che ci fa notare la discrasia fra la pretesa di padronanza di una istituzione lontana e incomprensibile (il Governo), e l’effettiva e rispettata regina del villaggio, la natura. Luis Sepúlveda

Ecco dunque che quel libricino così esiguo ci lascia nella pelle l’umidità della foresta, nelle orecchie i versi di animali mai visti, nella mente l’interrogativo di quanta natura stiamo perdendo e distruggendo, nel cuore la gradevole sensazione di aver trovato, dall’altre parte del mondo, dall’altre parte della realtà, un lettore appassionato quanto noi.

Lidia Bicciato Luis Sepúlveda

(www.excursus.org, anno IX, n. 86, settembre-ottobre 2017) Luis Sepúlveda