Soliloqui di Betlemme – Giovanni Papini

di GAETANINA SICARI RUFFO – Un Natale magico è quello che ci propone Giovanni Papini, scrittore ribelle del Primo Novecento, che si è arreso a Cristo ed alla sua storia nel corso del suo vorticoso iter letterario. Filosofo, critico e polemista, in quella Firenze che può essere considerata capitale culturale d’Italia, scrisse, nel 1921, dopo la sua conversione al cattolicesimo, Storia di Cristo (Vallecchi), che ebbe rapida e immediata fortuna.

Ora, con il pregevole commento di Franco Ferrarotti, professore emerito di Sociologia all’Università di Roma “La Sapienza”, ci vengono offerti dal Centro Editoriale Dehoniano di Bologna i suoi Soliloqui di Betlemme (pp. 56, € 7,00), pubblicati per la prima volta nel 1935 sul Corriere della Sera. Il testo originale è stato voluto nel 1996 da Rienzo Colla per conto dell’Editrice La Locusta, nella raccolta Natività.

È magico questo Natale che si potrebbe pure intitolare: attorno a Betlemme, nella notte sacra dell’anno. Sono nove soliloqui di persone ed animali. Sì anche questi ultimi hanno cuore e sentimenti e parlano dell’evento cui assistono, pur senza saperlo. Domina un’atmosfera incredula tra il prima ed il dopo del sacro evento.

 Il primo di questi soliloqui è Il Locandiere. Nel rifiutare l’ospitalità a Maria e Giuseppe che si sono presentati alla sua porta, egli ha avuto l’impressione che fossero una coppia clandestina, per via della differenza d’età dei due. Si confida: «Anche se mi fosse rimasta una camera libera non l’avrei data davvero a quella coppia lì. Gente sospetta». Pesa per lui, al primo sguardo, la loro condizione di povertà: «Se mi fossero arrivati con dei bei vestiti e la borsa pregna forse un posticino avrei potuto trovare pure per loro […]. Quando c’è l’oro di mezzo tutto s’accomoda». Sappiamo bene che danni questo concetto ha fatto in tanti secoli di vita vissuta, senza mai mutare orientamento ed è logico comprendere questo locandiere per il suo approssimativo ed erroneo giudizio esteriore.

Lo stesso errore compie il Padrone della stalla cui i due pellegrini si sono rivolti per passare la notte. Solo che non ha avuto il coraggio di mandarli via e ha loro concesso un posticino accosto ad un bue e ad un asino, ma è già pentito e si reputa un debole. La scena si apre sulla fatidica frase: «Ma che gente strana!». Dietro una finta indifferenza c’è però un’anomalia che stupisce: «Si sono seduti in silenzio come se pregassero senza parole o aspettassero un miracolo […]. Lei così  innocente, candida, pura che pare impossibile debba partorire da un momento all’altro». Il vecchio assiste «quella donna con tanti riguardi come se lei  fosse una regina».

Il terzo quadro, gradualmente, ci introduce nel miracolo. Il pastore rimasto indietro, perché vecchio, si è mosso in ritardo a visitare la stalla rispetto ai suoi amici. È incredulo e cattura uno spettacolo che è riservato ai puri di cuore: «Chi saranno quei giovanetti luminosi? Qui nel paese non si sono mai visti […]. Eppure sembrava che avessero dinanzi un braciere più che acceso».

E si affretta per andare a vedere anche lui chi ci sia nella stalla.

 La levatrice, personaggio inventato fuori d’ogni tradizione, si lamenta ed impreca, perché è stata svegliata da Giuseppe nel cuore della notte. Ma è giunta quando ormai il bimbo è nato da una madre che non ha sofferto e il neonato è sveglio con un sorriso, come fosse già grande. Non sarebbe voluta entrare nella stalla: «Le mie clienti sono tutte signore, le prime signore di Betlemme». Ma poi quello che vede le fa pensare che sotto ci sia una stregoneria. «La mamma tutta calma e placida, seduta vicino alla greppia come se non fosse accaduto nulla […]. Che sorprese sono queste? Sono venuta via sbattacchiando l’uscio. Farmi alzare a quest’ora, con questo vento ghiacciato, per arrivare a cose fatte! […] Ed io non sono più io, se non li fo andare via da Betlemme, codesti vagabondi ignoranti!». Minaccia gridando.

I quadri successivi riguardano il mondo animale, secondo una scala di ben diversa sensibilità. Sono presagi della divina presenza il bue e l’asino, il più umile di tutti. Il bue si chiede: «Chi hanno deposto nella mia mangiatoia?». Poi esso stesso riconosce che il neonato è un bambino «con gli occhi aperti grandi, sereni come il cielo d’aprile e si vergogna di non avere un posto più bello, degno di lui». L’asino, il più vicino alla verità, confessa di non essere stato mai felice come quella sera. Il neonato non è davvero il figlio d’un uomo, ha sentito dire dai pastori che a loro è stato annunziata la nascita di un dio: «E pensare che l’ho visto nascere io, povera bestia da soma, disprezzato da tutti!».

 Le pecore lasciate sole parlano della stoltezza dei pastori che le custodiscono di giorno e le abbandonano di notte, correndo come invasati, «per dar retta a quei giovani rilucenti», senza pensare che corrono il rischio d’essere assalite.

Il topo nel muro e Il passerotto sul tetto si lamentano del trambusto di quella notte e di quella strana luce di sotto e di sopra. Il topo ha paura di uscire e sta morendo di fame, il passerotto non capisce cosa stia succedendo: «È mai possibile che gli uomini si siano messi a volare come noi?». È una notte speciale: l’umano e il divino si sono incontrati.

Siamo davanti ad una rivelazione straordinaria che mai l’umanità avrebbe potuto pensare di meritare. Ma lo scrittore non ha voluto affidare i suoi quadri a formule complicate di teologia, per spiegarli: sono infatti  semplicissimi e contengono in sé lo stupore del mondo e della natura e il grande mistero della natività, presentato alla gente nella sua essenzialità.

 Gaetanina Sicari Ruffo

(www.excursus.org, anno IX, n. 81, marzo 2017)