Matthew Lipman: filosofando… con i bambini!


A scuola noi pensiamo alla matematica, pensiamo all’ortografia, pensiamo alla grammatica.
Ma quando mai c’è capitato di pensare al pensiero? […] Se noi pensiamo all’elettricità, possiamo capirla meglio,
e allora, se pensiamo al pensiero, potremmo capire meglio noi stessi.
Matthew Lipman, Il prisma dei perché, p. 1

di ALESSIA MARCHETTI – Il pensiero e il pensare sono ciò che caratterizza l’essere umano, ciò che lo rende esattamente quella strana cosa che è.  La storia della filosofia e della cultura non hanno mai smesso di ricordarcelo. C’è una differenza, però, tra il semplice pensare e il pensare bene. Se è vero che tutte noi creature umane pensiamo, non è affatto scontato affermare che lo facciamo bene, anzi, è piuttosto probabile che non sia così. È proprio dalla constatazione di questo fatto che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, negli Stati Uniti, Matthew Lipman ha elaborato la sua proposta educativa per insegnare a pensare bene, fin dall’inizio dello sviluppo cognitivo: fare filosofia con i bambini! La proposta lipmaniana, che ha preso il nome di Philosophy for Children (abbreviata con P4C), ha poi trovato ampio riscontro, prendendo piede in diverse parti del mondo (Italia compresa) e dando origine a proposte molteplici e differenziate di pratiche filosofiche con i bambini, nonché ad innumerevoli centri di ricerca [1]. Ma che cosa significa esattamente fare filosofia con i bambini? E ancora, che cosa si intende con ‘pensare bene’?

Il “buon” pensiero è definito da Matthew Lipman come «pensiero critico». Pensare criticamente implica diverse cose, come, ad esempio, impegnarsi a non contraddirsi e a costruire discorsi coerenti, fornire sempre delle ragioni per le proprie opinioni, non cadere in facili stereotipizzazioni o generalizzazioni non giustificate e, infine, imparare a pensare autonomamente, a servirsi cioè, per dirla kantianamente, della propria ragione senza la guida di un altro [2].

Il concetto chiave della proposta lipmaniana è quello di «comunità di ricerca». Insegnare a pensare criticamente richiede infatti in primo luogo

la trasformazione di una classe in una comunità di ricerca, nella quale gli studenti ascoltino con rispetto gli altri, integrino le idee degli altri, chiedano agli altri di fornire ragioni a supporto delle loro opinioni, si aiutino a vicenda a trarre conclusioni da quanto detto e cerchino di individuare le assunzioni degli altri (Matthew Lipman, Educare al pensiero, p. 31).

Trasformare la classe in una comunità di ricerca significa stravolgere completamente il modo tradizionale di concepire la didattica. Alla lezione frontale in cui vi è una gerarchia verticale nel rapporto insegnante-studenti, nella quale il flusso di informazioni è unidirezionale e si configura come una trasmissione di conoscenze da parte del maestro all’allievo, si sostituisce l’apprendimento attraverso il dialogo orizzontale. Bambini e insegnante, che in questa proposta assume il ruolo di facilitatore, seduti insieme in cerchio, apprendono dialogando su un problema, in base all’idea per la quale «Il bambino non diventa sociale apprendendo. Deve essere sociale per apprendere» [3]. L’apprendimento viene così a costruirsi come una ricerca condivisa, nella quale il facilitatore non fornisce soluzioni standard a questioni preconfezionate, ma piuttosto incoraggia i bambini a cercare insieme le soluzioni per ciò che loro stessi sentono problematico. Il valore di questo tipo di ricerca collettiva sta nel suo carattere auto-correttivo: dialogando insieme i bambini si correggono a vicenda e imparano che il loro pensiero può essere messo in discussione, che a volte è necessario difenderlo, altre rivederlo e altre ancora abbandonarlo.

La ricerca ha la propria origine dalla lettura condivisa di un racconto, avente come protagonisti dei bambini che vivono situazioni ordinarie e concrete, sulle quali si pongono interrogativi dotati di spessore filosofico (lo stesso Lipmanè  stato autore di diversi racconti di questo tipo, e proprio da uno di questi è tratta la citazione all’inizio di quest’articolo). Conclusasi la fase di lettura, che svolge la funzione di stimolo, i bambini sono invitati a formulare domande, sulla base delle quali si innesca, con la guida del facilitatore, la discussione.

Anziché continuare a descrivere questa pratica, sarà più utile a questo punto riportare un esempio di discussione filosofica, effettivamente svoltasi in una classe di bambini di dieci anni in una scuola americana.

La domanda da cui la discussione prende avvio è: “Se tutte le persone sono animali, allora tutti gli animali sono persone?”

A: ma cosa sono le persone? Che cosa sei tu?
B: una persona.
A: ma che cos’è una persona?
B: qualcuno che vive.
A: qualcuno di vivo può essere una balena.
B: ho detto qualcuno, non un animale…
C: ma perché vi state arrabbiando così tanto?
D: noi siamo tutti umani. Se un marziano ci vedesse direbbe: “ehi, guarda, ci sono degli umani!”. Non direbbe “ehi, guarda, ci sono degli animali laggiù!”.
E i Marziani, se ci sono, direbbero “ehi, guarda quelle strane creature laggiù!”. Loro non saprebbero che cosa siamo. Loro non saprebbero niente di noi. E poi, se è una persona, dici qualcuno, se è un animale dici qualcosa. Qualcuno è un corpo umano.
F: secondo me le persone sono tipi di animali, come lo sono gli uccelli. Un uccello è diverso da un elefante e noi siamo diversi da un uccello. F. dice che noi non diciamo che il nostro cane è una persona o qualcuno. Ma qualcuno potrebbe sentirsi molto vicino al suo cane e considerarlo una parte della famiglia.
D: qualcuno ha un’enciclopedia? Così controlliamo il significato di persona e di animale.

Il facilitatore provoca a questo punto i bambini, rilanciando la discussione con un’altra domanda.

Facilitatore: secondo voi, tutto quello che è scritto nell’enciclopedia è vero?[…] [4]

Ma qual è esattamente il ruolo della filosofia in tutto questo?
È ovvio come, in questa proposta, insegnare filosofia non abbia nulla a che fare con ciò a cui siamo abituati, soprattutto qui in Italia, dove insegnare filosofia è pressoché sinonimo di insegnare la storia della filosofia. È chiaro anche come questo modo di concepire l’attività del filosofare e la stessa filosofia siano radicalmente diversi dal modo in cui questi sono venuti a costituirsi nell’immaginario comune. Qui non c’è nessun filosofo con la barba lunga che medita in solitudine sui temi più astratti dell’esistenza, ma una comunità di persone che, dialogando insieme su questioni apparentemente banali e ordinarie, sviluppano le loro capacità di pensiero logico e pervengono insieme a conclusioni di un certo valore. La peculiarità della proposta lipmaniana emerge in tutta la sua chiarezza se paragonata ad uno dei libri che hanno avuto maggior successo nell’avvicinare i ragazzi alla filosofia, Il Mondo di Sofia di Jostein Gaarder (Longanesi, Milano, 1994). Il Mondo di Sofia è, in effetti, strutturato come un dialogo, ma questo dialogo ha una direzione univoca e piuttosto definita: il filosofo, mentore di Sofia, attraverso le sue lettere, racconta e insegna alla protagonista la storia della filosofia. Nella proposta lipmaniana, invece, il dialogo è multidirezionale, lo stesso facilitatore è spogliato della propria autorità intesa come fonte di conoscenza, e i suoi contenuti hanno poco, se non nulla, a che fare con la storia della filosofia.

I contenuti filosofici fondamentali, per Matthew Lipman, sono infatti quelli della logica. Si tratta di insegnare ai bambini a ragionare in maniera logica, cioè a scovare le contraddizioni, a individuare le inferenze valide, a categorizzare e a comparare, a definire i concetti, e così via. Per fare un esempio, imparare a ragionare in maniera logica significa diventare in grado di riconoscere che la proposizione: “tutte le persone sono animali”non è invertibile, cioè che se è vero che tutte le persone sono animali, non è vero che tutti gli animali sono persone. Insegnamento, questo, non di poco conto, se si considera come oggi, sottesa a diversi discorsi, vi sia l’idea che la proposizione “tutti i terroristi invocano il nome di Allah” sia invertibile e che, quindi, tutti coloro che invocano il nome di Allah siano, se non proprio terroristi, potenziali tali. Fare filosofia abitua anche a fare un lavoro di chiarificazione concettuale: così come la comprensione della non invertibilità della proposizione “tutte le persone sono animali” richiede di chiarire i concetti di ‘persona’ e ‘animale’, allo stesso modo, filosofare sulla proposizione “tutti i terroristi invocano il nome di Allah” implica impegnarsi a riflettere sul concetto di ‘terrorista’ e sul significato dell’atto di invocare il nome di Allah, chiaramente differente nelle due proposizioni.

Nonostante il pressoché unanime riconoscimento del valore della logica nel filosofare con i bambini, l’esclusione della storia della filosofia da questo insieme di pratiche non ha lasciato tutti soddisfatti. Rimanendo all’interno dei confini nazionali, una bella proposta di integrazione della P4C con la storia della filosofia è venuta da Nicola Zippel, presentata nel suo libro del 2017, I bambini e la filosofia (Carocci Editori). Qui Zippel difende l’importanza di trasmettere la consapevolezza che la filosofia è un’impresa umana storicamente e geograficamente determinata: nessun concetto e nessuna riflessione possono essere considerati in maniera avulsa dal contesto nel quale nascono e nel quale si inseriscono, le stesse modalità di ragionamento non hanno natura universale e a-storica. Per questo, non si può prescindere dal rendere i bambini partecipi della dimensione storica e geografica nella quale i temi che si discutono hanno avuto origine.

Sulla base di questa convinzione, Zippel ha costruito il suo laboratorio di filosofia, L’Alba della Meraviglia, durante il quale i bambini filosofano insieme, ragionando in maniera logica, su temi come “Di che cosa è fatto il mondo?” “Che cos’è la verità?” “Che cosa significa essere?”, “Che cos’è l’uomo?”, “Che cos’è la conoscenza?”, ripercorrendo insieme le tappe fondamentali delle origini della filosofia, appunto, dell’alba della meraviglia. In questo percorso, i bambini si confrontano con Talete, Anassimene, Eraclito ed Empedocle, passando da Parmenide e Pitagora, giungendo a Platone e Aristotele, per poi fare un lungo volo verso Oriente, con Confucio, Lao-tse e Buddha.

Al termine di questo viaggio i bambini hanno imparato che cosa pensavano i grandi maestri dell’antichità ed essi stessi a pensare meglio insieme a loro. Ecco qui, in conclusione, una delle testimonianze, riportata da Zippel, di questo lungo percorso:

In queste due lezioni di Filosofia ho capito qual è il mio filosofo preferito: è Empedocle, perché ha capito che tutti gli elementi possono essere fonte di vita o di morte e ha capito che sia Talete e Anassimene e Eraclito avevano ragione su una cosa: che senza l’acqua noi moriamo, senza l’aria noi moriamo e senza il fuoco moriamo di freddo. E non è che gli altri filosofi siano sciocchi. Ora vorrei farti due o tre domande. Perché Pausania doveva stare zitto quando Empedocle pensava? Cosa fanno i filosofi esattamente quelli di oggi? (Serena)

Cosa rispondere a Serena? I filosofi oggi fanno tante cose, pensano, scrivono, partecipano a conferenze… e alcuni vanno in giro per le scuole a filosofare in tanti modi diversi insieme ai bambini! Matthew Lipman

Alessia Marchetti Matthew Lipman

NOTE BIBLIOGRAFICHE

[1] – Sulla P4C in Italia cfr.: ANTONIO COSENTINO (a cura di), Filosofia e formazione. 10 anni di Philosophy for Children in Italia (1991-2001), Liguori, Napoli, 2002; SILVIA BEVILACQUA – PIERPAOLO CASARIN, Philosophy for Children in gioco, Mimesis, Milano, 2016; ERMANNO BENCIVENGA, La filosofia in ottantadue favole, Mondadori, Milano, 2017; sul web: http://www.filosofiaconibambini.it/
[2] – Cfr. MATTHEW LIPMAN, Educare al pensiero, Vita e pensiero, Milano, 2005.
[3] – GEORGE HERBERT MEAD, Mente, sé e società, Giunti Editore, Firenze, 2010.
[4] – Questa discussione è riportata in MICHAEL PRITCHARD, Philosophical Adventures with Children, University Press of America, Lanham, MD, 1985.

(www.excursus.org, anno X, n. 89, agosto-settembre 2018) Matthew Lipman