Borbonici, patrioti e criminali – Enzo Ciconte

di GIUSEPPE LICANDRO – La criminalità organizzata comparve tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento in Calabria, Campania e Sicilia, dove sorsero − rispettivamente − la “picciotteria” (detta anche “onorata società”), la “camorra” e la “mafia”.

A favorirne il radicamento nel Regno delle Due Sicilie concorsero diversi fattori: l’interesse dei nobili nel difendere le proprietà terriere minacciate dai contadini; la volontà del ceto borghese di ascendere socialmente; la voglia di una parte del proletariato di arricchirsi facendo leva sulla violenza.

La criminalità prosperò nel Mezzogiorno anche dopo l’Unità d’Italia e fu uno degli strumenti con i quali la classe dirigente garantì l’ordine sociale, anche a costo di scendere a patti con i “capibastone”, assicurando loro l’impunità in cambio del sostegno politico.

L’origine e l’evoluzione della malavita in Italia sono state analizzate da Enzo Ciconte, docente di Storia della Criminalità Organizzata all’Università di Roma Tre, che ha da poco pubblicato l’interessante saggio Borbonici, patrioti e criminali. L’altra storia del Risorgimento (Salerno Editrice, pp. 174, € 12,00).

I fenomeni criminali nel Regno Borbonico

Enzo Ciconte sostiene che la grande criminalità fece la sua apparizione verso la fine del Settecento, quando i giacobini napoletani – supportati dalle truppe francesi – instaurarono l’effimera Repubblica Partenopea (1799).

Fu allora che Ferdinando IV di Borbone, rifugiatosi in Sicilia, incaricò il cardinale Fabrizio Ruffo di allestire l’esercito della Santa Fede, assoldando «tanti pendagli da forca, banditi, criminali, tagliagole» capeggiati da noti banditi come Fra’ Diavolo, Mammone, Panedigrano, Panzanera e Sciabolone.

I sanfedisti riconquistarono il Regno di Napoli, ma nel 1805 i francesi lo invasero nuovamente e ne mantennero il controllo per un decennio. Durante il regno di Giuseppe I furono approvate le leggi eversive della feudalità che permisero alla borghesia «l’accesso alla proprietà privata della terra».

Fu, infatti, il ceto medio a incamerare le terre messe in vendita a discapito dei contadini più poveri, che furono privati anche degli “usi civici” non potendo più sfruttare i terreni comunali. Venne a formarsi così un ceto bracciantile molto umile che si rese disponibile a ingrossare le fila della criminalità e a fomentare i disordini sociali.

Dopo la restaurazione borbonica (1815), si affermò in Sicilia la classe dei “gabellotti”, che si arricchì grazie al «prestito a usura oppure amministrando i grandi latifondi». Questo ceto medio, violento e senza scrupoli, si diffuse anche in altre zone del Sud, dove i baroni, per difendere le proprietà, assoldavano armigeri privati, «a loro volta protetti contro le autorità».

La mafia si formò all’interno di questo ceto di gabellotti e campieri che, a un certo punto, si mise in proprio, praticando «una violenza di conio completamente nuovo […] strutturale e sempre più organizzata».

I moti siciliani del gennaio 1848 coinvolsero i contadini poveri, che formarono squadre armate, nelle quali s’infiltrò «la “giovane mafia dei paesi”». Le classi più abbienti, temendo la rivoluzione sociale, crearono la Guardia Nazionale, che divenne la «milizia di classe a difesa della borghesia ricca e dell’equilibrio sociale caratterizzato dalla prevalenza del baronaggio antico e nuovo».

La criminalità organizzata si divise equamente tra i difensori dell’ordine costituito e i patrioti che tentavano di cambiarlo. Ad esempio, la camorra napoletana venne «utilizzata indifferentemente dai liberali e dalla polizia borbonica», mentre la mafia siciliana dapprima si schierò con i movimenti anti-borbonici, poi collaborò con le forze che «rimisero in sella i Borbone».

I “picciotti” a sostegno di Garibaldi

L’arrivo di Giuseppe Garibaldi in Sicilia, nel maggio del 1860, mise in moto non solo le forze anti-borboniche, ma anche la stessa mafia: le fila dei Mille, infatti, vennero ingrossate da molti “picciotti” siciliani, mentre furono «circa novemila gli uomini liberati dalle prigioni».

Ippolito Nievo – in una lettera inviata alla madre poco prima di morire in circostanze tragiche e misteriose – ammise la presenza tra i garibaldini di bande campagnole «composte per la maggior parte di briganti emeriti che fanno la guerra al governo per poterla fare ai proprietari».

I contadini più umili appoggiarono le “camicie rosse” perché illusi da un decreto di Francesco Crispi che «prometteva a chiunque avesse combattuto con Garibaldi una quota delle terre comuni». Lo stesso Eroe dei Due Mondi firmò un secondo decreto a Rogliano – in Calabria – che consentiva agli abitanti «gli usi di pascolo e di semina nelle terre demaniali della Sila». La realtà, però, si dimostrò molto differente dalle promesse.

Ai primi di agosto del 1860, una rivolta contadina scoppiò a Bronte, minacciando le proprietà terriere dei discendenti dell’ammiraglio Nelson. Garibaldi e Crispi – sostenuti dal governo inglese – inviarono prontamente un battaglione agli ordini di Nino Bixio, che represse nel sangue la sedizione. Nel settembre dello stesso anno, Donato Morelli, governatore pro tempore della Calabria, modificò il decreto di Rogliano, riuscendo a vanificarlo.

Garibaldi raggiunse Napoli il 7 settembre, in treno, senza trovare ostacoli: Liborio Romano, ministro dell’Interno borbonico, si era infatti accordato con lui e aveva stipulato un patto con la camorra partenopea affinché nessuno facesse resistenza all’ingresso in città dei garibaldini.

L’intesa tra Romano e i camorristi rappresentò la continuazione di «forme di cogestione instauratesi nel tempo» all’interno del regno borbonico, ma costituì anche un pericoloso precedente degli accordi stipulati in seguito «di convivenza e di coabitazione, di cooperazione e di cogestione tra settori del potere politico con il potere mafioso».Enzo Ciconte

I legami mafia-politica dopo l’unità

La parte conclusiva del saggio di Enzo Ciconte è dedicata proprio ai rapporti intercorsi tra la criminalità e il ceto politico italiano dopo l’Unità nazionale, durante i governi sia della Destra storica che della Sinistra liberale.

L’autore prende in esame anche il fenomeno del brigantaggio meridionale, che fu considerato dai liberali moderati come mera «espressione dei tentativi borbonici e clericali di rimettere in sella la dinastia dei Borbone» e venne, pertanto, represso severamente attraverso la legge Pica (1863).

Non furono indagate, invece, le sue cause recondite, né si comprese «il profondo malessere delle campagne e le ragioni sociali che stavano dietro a quei contadini che combattevano».

La legge Pica fu estesa anche alla criminalità organizzata su proposta di Silvio Spaventa, sottosegretario all’Interno, che si dedicò scrupolosamente alla repressione della camorra napoletana. Le istanze moralizzatrici, tuttavia, non albergarono a lungo nel Regno d’Italia, poiché la criminalità organizzata fu ben presto riutilizzata dalle autorità politiche per gestire l’ordine pubblico.

In seguito ai moti di Palermo del settembre 1866, infatti, il prefetto Antonio Starabbia di Rudiní si fece aiutare nella repressione da vari malviventi «affidando a una parte di essi l’incarico di guardie campestri».

Questa assurda pratica venne ripresa, dieci anni dopo, dal questore Giuseppe Albanese, il quale era solito «assoldare delinquenti e mafiosi che venivano retribuiti in cambio di informazioni», giungendo persino a usarli «per ammonire, ricattare, eliminare qualche delinquente che disturbava».Enzo Ciconte

Gli scandali di fine secolo

L’avvento al governo della Sinistra liberale (1876) non mutò i rapporti tra politica e malavita. Anzi, la situazione peggiorò: ad esempio, nel 1877 il prefetto Antonio Malusardi – d’accordo col ministro degli Interni, Giovanni Nicotera – ricorse all’aiuto dei mafiosi palermitani per eliminare alcune bande di briganti.

La corruzione aumentò a causa del trasformismo, che incoraggiò i legami tra politica e criminalità, favorendo l’elezione in parlamento di esponenti «della camorra napoletano-casertana – come gli onorevoli Casale, Aliberti e Peppuccio Romano – e della mafia siciliana, come Palizzolo».

Il saggio di Enzo Ciconte si conclude con l’analisi di due gravi scandali che segnarono negativamente la politica italiana nell’ultimo decennio del XIX secolo: l’omicidio Notarbartolo e il crack della Banca Romana.

Emanuele Notarbartolo – ex direttore del Banco di Sicilia – fu ucciso in treno nel 1893, presumibilmente su ordine del parlamentare e boss siciliano Raffaele Palizzolo, che fu condannato a trent’anni di reclusione nel primo processo (1902), ma la sentenza fu poi annullata per vizio di forma e, nel secondo processo (1904), egli venne assolto per insufficienza di prove.

La morte di Notarbartolo era riconducibile anche al fallimento della Banca Romana (1892), allegramente diretta da Bernardo Tanlongo, che fu accusato di gravi reati come la «contraffazione di cartamoneta e gli ammanchi di cassa», serviti forse a finanziare importanti personaggi del calibro di Francesco Crispi e Giovanni Giolitti (che, però, furono in seguito scagionati).Enzo Ciconte

Furono quelle due buone occasioni per porre fine al connubio mafia-politica, ma si scelse ancora la strada dell’accomodamento e dell’omertà: alle future generazioni d’italiani, pertanto, venne lasciata «un’eredità molto particolare e per certi aspetti inquietante», destinata a perpetuarsi fino ai giorni odierni.

Giuseppe Licandro

(www.excursus.org, anno IX, n. 82, aprile 2017)