Ti ho vista che ridevi – Lou Palanca

loupalancatihovistacheridevidi GIUSEPPE LICANDRO – Il fenomeno dell’emigrazione – che tanti problemi sta creando oggi all’Italia, scatenando scomposte reazioni xenofobe e aspri conflitti interetnici – ha rappresentato in passato un’opportunità di crescita e di arricchimento culturale per le regioni che sono state maggiormente interessate dai flussi migratori. Negli anni del “boom economico”, infatti, milioni di meridionali si trasferirono verso i centri produttivi del “triangolo industriale” e contribuirono in maniera rilevante allo sviluppo economico del Belpaese; condizione che tuttavia accentuò ancor più il divario esistente tra Nord e Sud.

I “terroni”, in genere, non furono accolti con tolleranza e simpatia dalla popolazione locale, venendo spesso ghettizzati nei quartieri periferici delle città industriali e costretti ad abitare fatiscenti “case di ringhiera”, dove oggi continuano a vivere i lavoratori extracomunitari, in condizioni economiche e igienico-sanitarie assai precarie.

Le “calabrotte” delle Langhe

Non tutti, però, sono a conoscenza di un peculiare flusso migratorio che, negli anni Sessanta del secolo scorso, riguardò un consistente numero di giovani donne calabresi. Queste fanciulle, infatti, si trasferirono nelle spopolate Langhe dopo aver contratto regolare matrimonio con alcuni contadini locali, conosciuti tramite improvvisate agenzie matrimoniali gestite dai bacialè, i sensali langaroli. Le immigrate calabresi contribuirono alla crescita demografica ed economica del Piemonte negli anni Sessanta e favorirono l’integrazione culturale tra il Nord e il Sud della penisola italiana: due realtà geografiche rimaste a lungo estranee e contrapposte.

Della storia delle “calabrotte” – nomignolo con cui furono bonariamente etichettate dagli abitanti delle Langhe – parla il romanzo corale Ti ho vista che ridevi (Prefazione di Carlo Petrini, Rubbettino, pp. 214, € 14,00) scritto dal collettivo Lou Palanca – nom de plume che rimanda allo pseudonimo Luther Blisset –, dietro il quale si celano cinque autori calabresi (Fabio Cuzzola, Valerio De Nardo, Nicola Fiorita, Maura Ranieri, Monica Sperabene).Petrini, nella Prefazione, spiega che quella delle “calabrotte” fu «un’emigrazione invisibile e silente, di cui si preferiva non parlare», che risultò comunque salutare per le Langhe, poiché arrestò lo spopolamento di questa terra e ne favorì il successivo sviluppo produttivo.

La recherche di Luigi

I protagonisti di Ti ho vista che ridevi sono essenzialmente due: Dora Lucà, una ragazza di Riace costretta dalle circostanze sfavorevoli a emigrare in Piemonte nel 1966 e a sposare Gioan Verderame, un contadino di Verduno, paesino delle Langhe; Luigi Vizzarro, un maturo giornalista calabrese che, nel 2012, scopre di essere stato adottato alla nascita dagli zii e cerca di svelare l’arcano che si cela dietro la sua venuta al mondo, tentando di risalire all’identità dei suoi veri genitori.

Luigi intraprende un duplice viaggio: uno a ritroso nel tempo, per ricostruire ciò che accadde alla sua vera famiglia, a Riace, nel 1965; l’altro nelle Langhe odierne, alla ricerca della madre, forse ancora viva. A dare il via alle sue indagini è una lettera postuma della zia Carmela, la quale rivela: «Ho una sorella che si chiama Dora e che è la vera mamma tua». Il romanzo si sviluppa lungo distinti piani narrativi che s’intersecano in continue alternanze spazio-temporali. Al centro della trama c’è la vicenda Dora – «contadina e calabrese, ma comunista, povera ma ribelle» – travolta da un tragico destino e costretta, nel 1966, a emigrare in terre lontane, in un mondo umile segnato dalla fatica e dal silenzio, tra gente diffidente che parla un dialetto a lei incomprensibile.

In secondo piano troviamo le peregrinazioni di Luigi e la sua recherche du temps perdu, che gli consentirà, alla fine, di scoprire le proprie origini e di migliorare così la propria esistenza. Intorno alle due figure centrali si muovono altri personaggi minori, che rivestono un ruolo cruciale nel dipanarsi degli eventi: Rosaria ed Elisa (rispettivamente sorella e fidanzata di Luigi), il sensale Angiolino Gabetto (che combina il matrimonio tra Dora e Gioan) e «l’altra Dora», giovane nipote della protagonista.

Uno sguardo sulla storia italiana

Il titolo del romanzo trae ispirazione da una frase affettuosa che il marito rivolge a Dora durante un momento d’intimità. Gioan è un uomo schivo e laborioso, «saggio nella sua semplicità», ma vuole bene alla moglie ed è dispiaciuto che lei non rida quasi mai e non sembri apprezzare la vita che conduce. Egli non verrà mai a conoscenza delle tragiche vicende che hanno indotto la consorte a fuggire da Riace e a spezzare ogni legame con la propria famiglia (e che non sveleremo per rispetto dei lettori).

L’esistenza di Dora trascorre lenta e monotona, scandita dal lavoro nei campi col marito, dalle faccende domestiche e dall’educazione delle due figlie, Barbara e Rita. Un solo svago la “calabrotta” si concede: la lettura dei libri, «unico strappo a una vita piena di doveri». Dopo la morte del marito, Dora perde interesse per il mondo circostante e si rinchiude in una malinconica solitudine, ma l’improvvisa comparsa del figlio precocemente perduto la proietta gioiosamente all’interno di una nuova dimensione familiare, «ancora priva delle incomprensioni, dei rancori repressi, dei fallimenti», permettendole di ritornare dopo quarantasette anni al paese natio.

Oltre alle vicende di Dora e Luigi, gli autori descrivono alcuni momenti altamente drammatici della storia italiana: la Resistenza, le lotte contadine del Secondo Dopoguerra, gli “anni di piombo”, i rapimenti dell’Anonima sequestri calabrese, le rivolte in Val di Susa contro la Tav, gli sbarchi delle “carrette del mare” sulle coste dell’Italia meridionale.

«Anime contadine / in volo per il mondo»

Nella parte conclusiva del volume compaiono le altre “calabrotte” ancora in vita (Annarita, Franca, Marisa, Santina), incontrate da Luigi nel suo girovagare per le Langhe, dalle quali promana ancora il vigore morale che ha permesso loro di ritagliarsi un proprio spazio in un mondo chiuso e ostile, che lentamente le ha accettate e ha saputo apprezzarne le virtù. Una parte rilevante nell’intreccio narrativo la svolge anche «l’altra Dora», educata al valore della solidarietà e all’amore per la cultura, che partecipa alle lotte dei movimenti no-global e, alla fine, concorre a salvare un gruppo di profughi arabi naufragati al largo di Riace, aiutando Amina, una ragazza siriana con un vissuto simile a quello di «Nonna Dora».

Il romanzo scritto dal collettivo Lou Palanca si apprezza anche per il linguaggio chiaro e scorrevole, impreziosito dall’uso di termini dialettali e dalle citazioni dei testi di alcuni noti brani di musica rock e d’autore (Epitaph dei King Crimson, Impressioni di settembre della Premiata Forneria Marconi, Anime Salve di Fabrizio De Andrè). Ti ho vista che ridevi si chiude proprio con una strofa del cantautore genovese, che esprime compiutamente l’intento degli autori di dare voce a coloro «che si arrampicano ostinatamente lungo le avversità del destino per conquistarsi un’altra vita»: «Vi saluto dai paesi di domani / che sono visioni di anime contadine / in volo per il mondo».

Giuseppe Licandro

(www.excursus.org, anno VII, n. 72, ottobre-novembre 2015)